Ce l’ha fatta anche Dionis, classe 2001, Albania. Anzi, montagne del Nord albanese, quelle dove la neve dura tre mesi l’anno e la televisione italiana non arriva. Le ha lasciate quando aveva 16 anni, sbarcando dal traghetto a Bari e passando i primi anni qui in una comunità per minori non accompagnati a Bologna, dove il Comune è sempre stato all’avanguardia nell’accoglienza. Ha studiato grazie a una bravissima tutrice nominata dal tribunale, quando la sorella è arrivata a Trento insieme al marito ha deciso di andare a vivere lì anche lui, fiducioso nella possibilità di crearsi una vita autonoma in Italia grazie alla sua abilità come idraulico.
E poi c’è Oumar, classe 1992, rifugiato in Italia a causa di un colpo di stato militare nel suo paese, la Guinea. Passa per un centro per minori stranieri non accompagnati, studia, impara l’italiano, lavora in una falegnameria della Brianza ottiene un contratto a tempo indeterminato. Ha avuto anche la cittadinanza italiana, il che gli permetterà di trasferirsi in Svizzera, dove le prospettive di lavoro sono migliori.
Sono tre delle mille storie dei migranti di questi anni, storie di persone, non di “clandestini”, storie di integrazione faticosa (la lingua, il dedalo della burocrazia, la diffidenza lasciano il segno) ma storie di piccoli successi, di progetti di vita che crescono. Storie che non vediamo in televisione, che non compaiono sui giornali, storie di una normalità conquistata faticosamente ma normalità.
Tutto l’opposto della retorica dell’invasione, dei porti chiusi, del terrorismo, o addirittura dell’epidemia, che arriverebbero sui barconi.
Una narrazione che non ha nulla a che vedere con la realtà: l’anno scorso sono arrivati via mare meno di 11.500 migranti, secondo il rapporto Centro Studi e Ricerche Idos pubblicato nei giorni scorsi. Una cifra insignificante se confrontata con le dimensioni della popolazione italiana (60 milioni) o il numero dei comuni nel nostro paese (oltre 8.000) o lo squilibrio demografico che ci caratterizza: l’anno scorso ci sono stati 634.000 decessi per 420.000 nascite.
La realtà è che i migranti arrivano con il contagocce, sono disposti a fare i lavori più umili e malpagati (ricordiamoci dei braccianti che raccolgono i pomodori per 3 euro l’ora) e, soprattutto, che avremo sempre più bisogno di loro per mantenere in equilibrio il sistema pensionistico: in Italia ci sono troppo pochi lavoratori attivi per mantere una massa crescente di pensionati con un’aspettativa di vita che supera gli 80 anni.
L’integrazione non viene però da sola: c’è bisogno di strutture, di centri d’accoglienza, di corsi di lingua, di formazione professionale. C’è bisogno di alloggi, perché l’Italia poco costruisce (l’edilizia popolare è una goccia nel mare dei bisogni) e perché i padroni di casa sono diffidenti verso chi ha la pelle di un altro colore. Nemmeno l’epidemia, per ora, è riuscita a sgonfiare la bolla immobiliare delle città grandi e medie, che ha fatto crescere gli affitti a livelli insostenibili per chi ha salari miseri e lavori precari (questo, sia ben chiaro, vale anche per i giovani italiani).
Per il momento, la soluzione del problema è affidata alla solidarietà delle comunità di provenienza e all’azione di associazioni della società civile, come Refugees Welcome, Famiglie Accoglienti, Agevolando, Rete porto sicuro (Como), ALI (Roma) e molte altre. Ma il volontariato non può affrontare il problema di fondo delle migrazioni: si tratta di una realtà planetaria (nel 2019 i migranti internazionali erano 272 milioni, cioè il 3,5 per cento della popolazione mondiale) che negli ultimi anni si è voluto trasformare in un problema di ordine pubblico.
I migranti ci sono e ci saranno: come il riscaldamento globale fanno parte di trasformazioni profonde che si possono accompagnare e gestire ma non negare o combattere con slogan truculenti.
Domani, 9 novembre 2020