La seconda guerra civile americana

08 Giugno 2020

Fabrizio Tonello

Verso le presidenziali. Da qui a novembre molti giovani neri e ispanici potrebbero decidere che le elezioni sono «una faccenda per i bianchi» e ignorare gli appelli al voto

Donald Trump si è rifugiato in una Casa Bianca circondata di fili spinati e barriere metalliche e protetta da guardie armate che non sono poliziotti, né soldati, ma mercenari. Immagini che fanno quasi pensare a Hitler nascosto nel bunker della Cancelleria di Berlino nel 1945, invece che a un leader democraticamente eletto nell’America di Lincoln.

E certo Trump non si aspettava che il sindaco di Washington Muriel Bowser ribattezzasse Black Lives Matter Plaza l’area dove lui si era fatto fotografare qualche giorno fa con una Bibbia in mano dopo una brutale carica della polizia. Ancora più irritante dev’essere stato il vedere che Google Maps abbia prontamente registrato il cambio di denominazione, mentre sulla 16° strada il municipio ha dipinto in giallo sull’asfalto una scritta Black Lives Matter che occupa due interi isolati.

Nonostante le proteste contro le brutalità della polizia, Trump sa di avere ancora un potente alleato in vista delle elezioni di novembre: le immagini di saccheggi che le reti televisive trasmettono incessantemente benché gli episodi siano stati fino ad ora marginali. I sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli americani ha reagito con orrore al video del poliziotto di Minneapolis che soffocava deliberatamente un afroamericano arrestato e confermano anche una vasta approvazione per la decisione della procura di arrestarlo con l’imputazione di omicidio. Da qui a novembre, però, molte cose possono cambiare.

Trump spera in un’elezione che sia la replica di quella del 1968, quando gli americani andarono a votare dopo mesi di scontri tra la polizia e i manifestanti, in particolare durante la convenzione di Chicago dei democratici, allora giustamente considerati il partito della guerra in Vietnam.

Il candidato repubblicano Richard Nixon battè incessantemente sul tema Law and Order durante la sua campagna elettorale, aiutato in questo dal democratico George Wallace, governatore segregazionista dell’Alabama, che si presentava come indipendente. Wallace usava ripetere che nel suo Stato non c’erano rivolte perché «il primo che prende in mano un mattone si becca una pallottola nel cervello».

Alla fine vinse Nixon, di stretta misura: lo spostamento di alcune decine di migliaia di voti in una mezza dozzina di stati sarebbe stato sufficiente per impedirgli di ottenere la maggioranza nel Collegio elettorale e demandare l’elezione del presidente alla Camera dei rappresentanti, allora con una maggioranza democratica che avrebbe scelto il vicepresidente in carica Hubert Humphrey.

Trump è sempre stato un presidente di minoranza: minoritario nel voto popolare del 2016 (Hillary Clinton ottenne tre milioni di voti più di lui) e minoritario nell’opinione degli americani: dal suo ingresso in carica il 20 gennaio 2017 in poi, nemmeno per un giorno ha registrato un consenso superiore al 50% dei cittadini. Negli Usa, però, le minoranze possono prevalere grazie ai meccanismi brutalmente antidemocratici del sistema elettorale e agli sfacciati tentativi dei repubblicani di escludere dal voto neri e ispanici.

Soprattutto, Trump mantiene un consenso apparentemente indistruttibile tra gli elettori di un partito repubblicano ormai sottomesso ai suoi deliri. Nonostante la sua gestione disastrosa della pandemia, che ha fatto finora circa 120.000 morti, in particolare tra le minoranze etniche, e una disoccupazione di massa che non ha precedenti nella storia americana, il 40% degli elettori per il momento dice di approvare ciò che il presidente sta facendo. È quella parte del paese che in realtà teme più di ogni altra cosa la perdita di status e di potere, di diventare una minoranza in un paese dove tra pochi anni i bianchi saranno meno del 50% della popolazione.

Le elezioni sono ancora lontane e tutto può succedere: una disfatta totale per Trump l’incendiario, come lo dipinge questa settimana la copertina del settimanale tedesco Der Spiegel, ma anche una sua vittoria grazie al sostegno di un partito repubblicano da decenni ormai espressione di miliardari disposti a tutto pur di mantenere soldi e potere. Non dimentichiamo che l’immensa quantità di denaro messa a disposizione dalla Banca centrale e dal Congresso in queste settimane fa gola a molti.

A questo si aggiunge il fatto che è difficile prevedere come si comporteranno gli afroamericani oggi protagonisti delle manifestazioni quando dovranno andare a votare. Joe Biden è stato vicepresidente di Barack Obama ma è bianco, anziano, propenso alle gaffe e certo non è un candidato carismatico. Da qui a novembre molti giovani neri e ispanici potrebbero decidere che le elezioni sono «una faccenda per i bianchi» e ignorare gli appelli al voto, anche se si tratterà di cacciare dall’ufficio ovale il peggiore presidente in tutta la storia della repubblica.

 

Il manifesto, 7 giugno 2020

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