In libreria, il saggio di Donatella Di Cesare “ Tortura”, edito da Bollati Boringhieri (pagine 217, e 11). L’autrice, firma del «Corriere», è docente ordinaria di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma.
Il libro, oltre ad affrontare il tema della tortura sotto il profilo filosofico, esamina diversi casi concreti: l’omicidio di Giulio Regeni in Egitto, le violenze del G8 di Genova, i casi di Abu Ghraib e Guantanamo, l’uso di metodi che non lasciano segni visibili sulle persone seviziate. A suo avviso si può e si deve parlare di tortura ogni volta che un soggetto inerme si trova «nelle mani del più forte»
Tra i punti su cui insiste Donatella Di Cesare c’è l’esigenza di introdurre il reato di tortura nelle leggi penali del nostro Paese.
Allieva di Hans-Georg Gadamer, il padre nobile dell’ermeneutica nel secondo Novecento, Donatella Di Cesare si è immersa negli anni recenti nelle acque limacciose dei Quaderni neri di Martin Heidegger, alla ricerca di verità scomode e dirompenti anche all’interno della comunità di studiosi alla quale appartiene. A un marcato interesse per il totalitarismo e le sue più nefaste perversioni si deve il suo ultimo libro, intitolato semplicemente Tortura (Bollati Boringhieri). Come se enunciare questa parola fosse già un gesto di sfida, ancora più efficace di un titolo come Contro la tortura . Perché il potere moderno che impiega la tortura come strumento di dominio per prima cosa si impegna con grande scrupolo a negare non solo la cosa, ma la parola stessa.
Capitoli essenziali di questa «crudele scienza del dolore» sono il segreto e il silenzio. Lo scenario ideale è il sotterraneo, da dove nessun lamento potrà mai raggiungere il mondo esterno. Se la tortura è un male così tenace, molta della sua forza deriva proprio dall’occultamento e dalla negazione. Vale la pena di guardare in questo buco nero dal punto di vista della filosofia, come fa Donatella Di Cesare? Indubbiamente sì, perché la posta in gioco è tutt’altro che un’esercitazione accademica su un tema astratto.
Si potrebbe dire che la filosofia è il vero antidoto della tortura, perché incalza con la sua esigenza di verità ciò che il potere vuole rendere opaco, sospeso in un limbo tra l’essere e il non essere, tra la regola e il reato. E poi, la filosofia deve sempre essere una terapia contro i falsi ragionamenti, le illusioni spacciate per conclusioni.
Ebbene, l’argomento più diffuso in giustificazione della tortura suona più o meno come un quesito filosofico. Sta per scoppiare, in qualche luogo molto popolato della città, una bomba a orologeria. Ho un prigioniero, un terrorista che sa dove è collocata la bomba, se lo torturo crollerà e mi permetterà di salvare centinaia, forse migliaia di vite. Ecco una situazione che potrebbe suggerire addirittura il dovere di fare uso della tortura, scongiurando il male maggiore con il male minore. È un argomento che ha un grande potere: è immediatamente comprensibile, e capace di orientare efficacemente l’opinione pubblica. E visto che la tortura si annida tanto nella dittatura quanto nella democrazia, l’opinione pubblica assume un rilievo fino a poco tempo fa del tutto inaspettato in un dibattito sulla tortura.
Questo forse è il punto cruciale dell’indagine di Donatella Di Cesare: non c’è una forma particolare di governo che in sé e per sé possieda un legame di necessità con l’esercizio della tortura. Certamente, dal semplice punto di vista quantitativo, le dittature ne fanno un uso maggiore, e la loro negazione è più efficace, tanto che il solo pronunciare la parola tortura può diventare un pretesto più che sufficiente per entrare nel numero dei torturati. Ma il dilemma della bomba a orologeria è concepito per una società libera, dove le cose non esistono senza consenso e dove il consenso può rendere legittime le pratiche più scellerate. Questo è il rischio principale, lo scoglio sul quale può infrangersi la fragile imbarcazione di qualsiasi democrazia. E allora, seguendo per sommi capi il ragionamento di Donatella Di Cesare, il primo gesto filosofico sarà quello di smontare l’intero congegno.
Non c’è nessuna bomba a orologeria e nessun terrorista in quella determinata situazione. Perché le cose non accadono mai così linearmente come possiamo vederle in una serie televisiva. Magari. Allora saremmo tutti contenti che un Jack Bauer strapazzi un po’ quel disgraziato fino a fargli sputare le informazioni che salveranno tutte quelle vite che affollano la stazione della metro o i grandi magazzini nell’ora di punta. Ma nella realtà le cose accadono in maniera incomparabilmente più ingarbugliata, e i rapporti di causa ed effetto sono così complessi che la tortura, semplicemente, dal punto di vista puramente pragmatico, non serve a niente.
L’unica cosa vera di quella situazione immaginaria, in fin dei conti, è che le vite si salvano con le informazioni. Ma le informazioni buone non si ottengono torturando: si comprano, si rubano, si scoprono in modo fortuito, o con l’impiego di sofisticatissime tecnologie. Dunque la filosofia si deve confrontare con questo controsenso, il perdurare nella storia umana di qualcosa che non può nemmeno vantare una sua utilità a chi ne rifiuta l’infamia. Ma interrogarsi sulla natura del potere, di qualsiasi forma di potere, significa prima o poi addentrarsi in questa malefica penombra, in questa terra senza ritorno dove la legge è amministrata dal fuorilegge, che la distorce a un fine inaudito, insostenibile.
Un personaggio di un romanzo di Graham Green dice che Hitler ha insegnato agli europei che tutti, indipendentemente dal loro ceto, dal loro sesso, dalla loro età e dalle loro colpe, sono potenzialmente torturabili. Questa feroce parodia del concetto di uguaglianza è una delle zone morte della nostra storia, un lascito di cui le nostre società non riescono mai a liberarsi una volta per sempre.
Il Corriere, 08 Novembre 2016