Boschi e Renzi sembrano ignorarlo – il “Piccolo Bignami di Storia Contemporanea” non forma statisti – ma il vituperato ostruzionismo parlamentare ha scritto pagine nobili nella storia della nostra democrazia, firmate da uomini come Giolitti e Zanardelli. Intestando ai due grandi esponenti dell’Italia liberale la tessera del partito dei frenatori gufi, i leader del “nuovo che avanza” dimostrano una povertà culturale che spiega da sola l’abisso in cui precipitiamo.
L’ostruzionismo nasce in Italia nel cuore di una gravissima crisi sociale e politico-istituzionale che, per dirla con Banti, ebbe il suo epicentro “in quel tremendo Far West dei poveri che era diventata la pianura padana tra fine Ottocento e inizio Novecento”; una crisi che riguardava buona parte di un Paese in cui la gente si dannava per trovare un lavoro e sopravvivere agli stenti con poche lire di salario al giorno. Incapaci di dare risposte concrete alla crisi e preoccupati anzitutto di salvaguardare privilegi di classe e interessi economici dell’ala più retriva della borghesia, le classi dirigenti tentarono di far pagare ai ceti subalterni il costo delle crisi, giocando la partita sulla riduzione delle libertà politiche e puntando tutte le sue carte su una riforma dello Stato che rafforzasse i poteri del governo a spese del Parlamento. In rapida successione, sia il governo Rudinì che quello guidato poi dal generale Luigi Pelloux tentarono di far passare leggi di stampo repressivo, ispirate a una concezione autoritaria dello Stato, che mirava soprattutto a contenere le rivendicazioni sociali e le aspirazioni democratiche di cui erano portavoce le opposizioni parlamentari.
Allora come oggi, una legge elettorale iniqua e autoritaria, che produceva squilibri profondi tra governabilità e rappresentanza, aveva generato un Parlamento che restituiva un’immagine deformata della composizione sociale del Paese, ma a Montecitorio autorevoli esponenti della maggioranza mordevano il freno e nel Paese i cattolici, superato lo stallo della “questione romana”, si organizzavano politicamente in un partito che si ispirava alla dottrina sociale della Chiesa.
Come spesso accade, i grandi temi della democrazia – riconoscimento delle libere associazioni dei lavoratori e tutela del lavoro, riduzione delle spese militari, disarmo generale e libertà di stampa – crearono uno schieramento trasversale che andava ben oltre l’Italia piccola e meschina rappresentata in Parlamento. Quando Pelloux, come fa oggi il malaccorto Renzi, scelse la prova di forza, presentando una serie di provvedimenti legislativi che minavano alla radice i principi fondanti dello Stato liberale, le opposizioni parlamentari che, grazie alle legge elettorale, erano minoranza alla Camera e maggioranza nel Paese, reagirono con grande decisione. Per la prima volta nella storia del nostro Parlamento si fece ricorso all’ostruzionismo, cui aderirono senza esitare i gruppi della sinistra liberale, capitanati da Giolitti e Zanardelli. Invano il governo, incurante della crisi economica che strangolava il Paese, inchiodò l’attività politica al suo progetto reazionario, invano tentò d’imporre i suoi provvedimenti, imbavagliando le opposizioni. Non bastarono decreti, appelli all’amor patrio e intimidazioni. Il 18 maggio 1900 Umberto I sciolse le Camere e i cittadini, chiamati al voto nel giugno successivo, nonostante la pessima legge elettorale, liquidarono l’ottusa reazione. Nacque così l’Italia democratica, pugnalata poi alla schiena da Mussolini e risorta, con tutti i suoi i limiti, ma con infinità dignità, sui monti dei partigiani. E’ l’Italia che Renzi e Boschi, un personaggio oscuro mai votato e una “nominata” senza storia, tentano di sacrificare a meschine ambizioni personali e ambigui interessi di parte.
Le opposizioni parlamentari si sono appellate a Giorgio Napolitano, custode della legalità costituzionale. C’è da augurarsi che il Presidente della Repubblica sappia essere all’altezza del re savoiardo. Allora come oggi, in discussione c’è la democrazia.
* L’autore è studioso dell’antifascismo e socio di LeG