Un ottimo articolo di Claudio Tito su Repubblica del 26 marzo ci ha fornito il pezzo del puzzle che mancava per capire appieno ragioni, motivazioni e obiettivi – fin qui non sempre comprensibili – del percorso di Matteo Renzi. Secondo Claudio Tito, il premier intende far virare il sistema politico italiano verso un forte premierato, rafforzando dunque il suo personale potere. La “grande riforma”, come la chiama Tito, assegnerebbe al presidente del Consiglio due nuove facoltà: l’esame preferenziale e accelerato dei suoi disegni di legge e, ben più rilevante, la revoca dei ministri.
L’idea non è nuova. Silvio Berlusconi nei suoi molti anni al governo ha sempre vagheggiato questo tipo di trasformazione. Infatti, da quel che scrive Tito, l’idea di questa riforma è stata avanzata proprio dall’ex Cavaliere, e (sorpresa!) stavolta “la proposta forzista è stata sostanzialmente accolta da Matteo Renzi”.
L’impatto di tutto questo non sfugge a nessuno. Il primo ministro che nella attuale Costituzione è un “primus inter pares” diverrebbe un capo di governo i cui poteri aumentano a spese di quelli del Parlamento e del Capo dello Stato, nelle cui mani oggi, secondo l’articolo 92 della Costituzione, risiede il potere di nomina del presidente del Consiglio e dei ministri.
Si tratterebbe di una vera e propria “rivoluzione” in grado – prendo in prestito Tito – “di correggere la forma di governo così come era stata concepita dal 1948 ad oggi”. Dopo le polemiche del passato, e la permanente e mai sopita discussione intorno alla Costituzione, anche solo l’annuncio di tale riforma rischia di essere una scossa delle più forti fin qui impresse al sistema dal nuovo premier. Va visto naturalmente se davvero questa proposta si materializza. Ma anche se così non fosse, e al momento nessuna smentita è arrivata all’articolo di Tito, ci sono pochi dubbi che la direzione è stata già ampiamente imboccata da Renzi.
Un po’ come Pollicino, ha infatti lasciato sul terreno in queste settimane tante briciole che portano in questo senso. La prima delle bricioline è il rapporto che ha scelto di avere con il partito di cui è segretario. Un rapporto che chiamerei di “sudditanza” del Pd nei confronti del ruolo di premier.
Il Partito democratico è stato organizzato, dopo le primarie, intorno a una segreteria che pur essendo espressione di ogni corrente, in pratica è nelle mani solo degli uomini più vicini a Renzi. Si è immaginato che a causa del brevissimo tempo intercorso fra vittoria alle primarie e nomina a Premier, il segretario abbia avuto poco tempo per davvero lavorare al rapporto con la sua stessa organizzazione – che pure lo ha portato a Palazzo Chigi.
Ma ora, dopo qualche settimana al governo, appare chiaro chiaro che non si è trattato né di tempo né di dimenticanza. Questa settimana il premier rivelerà la riorganizzazione della segreteria (alcuni dei suoi ex membri sono ora al governo), e le prime indicazioni confermano l’assoluto controllo che Renzi intende tenere sul partito: invece di scegliere un leader da far crescere, il partito sarà affidato a due reggenti, di cui uno, Guerini, con compiti di organizzazione e l’altro, Serracchiani, bravissima, ma già impegnata nel delicato (e lontano) incarico di Presidente della regione Friuli. Una soluzione certo non destinata a minacciare il controllo di Renzi sulla organizzazione.
Del resto una seconda indicazione, un’altra briciola, il Premier l’ha lasciata cadere proprio a proposito del suo personale potere nel partito. Un suo uomo ha di recente lanciato l’idea che in futuro alle elezioni nel simbolo del Pd ci sia il nome “Renzi”. Il premier ha prima smentito poi ha confermato (a la Stampa in una intervista a Federico Geremicca) che l’ipotesi non c’è per le vicine europee ma per le prossime politiche se ne potrebbe parlare. Renzi dunque lavora già a un partito personale sia nel controllo che nel nome. E questa è sicura base per la fondazione del premierato forte.
Non solo. Indicazioni di natura dirigista sono già evidenti nel modo come sta gestendo Palazzo Chigi. È visibile sia nel suo rapporto con i media che con il Parlamento il totale accentramento sulla sua figura. Visibile nel senso stretto della sua immagine (avete notato che le immagini di questo governo sono solo i tanti volti di Renzi e solo raramente compaiono i ministri?) e nel tipo di gestione: già ora, ad esempio, il Parlamento sotto la continua gragnuola di annunci di riforme e di misure non ha quasi più il tempo né di votare né di discutere.
Anche la “narrazione” (così si dice ahimè oggi) che Renzi ha sviluppato intorno al suo compito si basa sulla personalizzazione del ruolo: “o le riforme o vado a casa”, dice sempre, come se, appunto, la sua fosse una partita del tutto individuale. Il Premierato forte è dunque già nelle cose. Renzi infatti ha fin da subito messo in chiaro di rivolgersi direttamente alla nazione, che il rapporto politico fondamentale è fra lui e il paese, i cittadini, il popolo, gli imprenditori, gli operai, gli amministratori, gli elettori. Il suo è già un sistema di disintermediazione di tutti i corpi sociali della democrazia attuale, partiti, Parlamento, e, ultimissima briciola, sindacati e Confindustria alle cui critiche ha di recente risposto con un “ce ne faremo una ragione”. Che immagino possa essere una versione aggiornata del “me ne frego” .
Il processo mi sembra a questo punto molto chiaro. La questione che si pone è se questo processo sia intrinsecamente necessario a rammodernare il paese o meno. La tesi che Renzi presenta a chi critica questo suo eccessivo potere è che questa è l’unica strada per cambiare il paese, per far scorrere il suo fresco ruscello nella palude della resistenza del sistema, per poter insomma fare pulizia del fallimento e delle incrostazioni del passato. A chiunque lo critichi, il Premier risponde oggi con la controaccusa di esser parte della conservazione, con ciò passando dalla discussione politica alla lista fra buoni e cattivi.
Io proverei invece a formulare diversamente questo binomio: il cambiamento di un paese dipende davvero dalla somma di potere che si accumula nelle mani di un solo uomo, o non piuttosto dalle idee e dalla efficacia delle proposte che un leader politico propone a un paese? Ancora: il cambiamento comporta necessariamente una quota di strappi e lacerazioni, emotivi e sociali – ma un grande leader non è tale proprio perché riesce a imporre il massimo di sacrifici con il massimo di accettazione di questi da parte della popolazione? In altre parole: creare una base di massima condivisione anche del dolore comune, è la base vincente non solo delle democrazie moderne, ma di tutte le società solide. Non è una questione di destra o sinistra – vorrei fare qui il più controverso degli esempi, quello della Thatcher, un leader di destra molto forte che, pur potendolo fare, non ha mai varcato il limite degli equilibri di potere né nel Parlamento né nel partito.
In altre parole, a me non pare che per il cambiamento abbiamo bisogno di leader dai poteri straordinari. Ma bisogno di leader dalla visione, dal carisma e dalla cultura straordinari.
La scelta fra questi due percorsi si esercita del resto in molti luoghi e ruoli della attività umana. Un po’ come in una famiglia, il genitore che educa meglio i figli non è quello che esercita la coercizione, ma la convinzione. È un po’ la differenza fra hard power a soft power in politica internazionale oggi. La differenza fra consenso e obbedienza.
Naturalmente di queste due opzioni si può discutere. C’è una forte tendenza nelle nostre società a favore dell’una o dell’altra idea di potere. Si discute, si sceglie. Si va al voto anche per questo. Alla fine, quello che più è sconcertante di questa “grande riforma” renziana è che si sta applicando ma non la si è mai enunciata, e ancor meno dunque discussa. Se ne parla ora, ad esempio, ma nelle primarie non se n’è presentata mai nemmeno l’ombra.
Dopo venti anni passati a bloccare la tentazione allo strapotere di Silvio Berlusconi, oggi non trovo particolarmente irriverente, e nemmeno paludoso, ricordare tutto questo all’attuale Premier.