Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.
La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’»inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.
La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.
I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra. Pour cause i comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).
In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disantinviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire
le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127). Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.
Come sempre il Prof. Cordero, con straordinaria ironia, sbugiarda Soloni, vergini violate o vecchietti un po’ rincoglioniti e ormai travolti da delirii d’onnipotenza; questa volta tuttavia il problema è gravissimo: il Presidente Pannolone ha scatenato un conflitto fra cariche dello stato inaudito e mai visto nel corso della storia repubblicana. I turiferari dell’intangibilità presidenziale legittimano un precedente pericolosissimo in un futuro in cui alla presidenza della Repubblica dovesse accedere un personaggio ( Berlusconi aut similis?) , sentendosi equiparato a Luigi XIV potrebbe reintrodurre il principio proprio della monarchia assoluta che tale era per volontà divina, fuori da qualsiasi controllo di quelli che sostanziano una democrazia costituzionale. A quel punto un’eventuale trattativa con la mafia diventerebbe legittima ed inarrestabile, con buona pace dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’autonomia della Magistratura. Chiedo, non sentendomi affatto rappresentato come cittadino e quindi come parte integrante del corpo dello Stato: non è ravvisabile in questo pronunciamento della Consulta e dell’augusto attore che l’ha determinata un sentore di colpo di Stato e, se si, cosa è possibile fare? (Dopo il 5 luglio del 1789 la monarchia assoluta finì decapitata e non solo in senso metaforico). Bisognerà forse richiamare in servizio Madam la ghigliottina?
Se i membri della Corte Costituzionale sono emanazione di partiti e organi costituzionali il cui stato di salute è quello attuale, non c’è da meravigliarsi che le sentenze prescindano spesso – vedi il caso attuale, nonché la recente bocciatura del referendum elettorale – dai principi stabiliti dalla nostra Carta.
La questione fondamentale è come garantire l’assoluta imparzialità dei giudici supremi. Se per assurdo fossero estratti a sorte tra candidati in possesso di requisiti stringenti, valutati da una commissione di giuristi, avvocati, magistrati e professori di diritto costituzionale, le sentenze della Corte raggiungerebbero forse un grado maggiore di imparzialità e obiettività.
Bravo Cordero! Avevo letto anche il suo articolo di qualche giorno fa ed era chiarissimo. Molto meno chiaro e contraddittorio il risultato della sentenza, ma tant’è: questa purtroppo e la prima e l’ultima istanza! Non esiste appello e qualche istituzione i giudici dovevano pur salvarla, pensando al Quirinale come ultima sponda. Purtroppo questo rientra in quei casi in cui le cose si dannano solo per volerle salvare.
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Una domanda a chi scrive l’articolo: il fatto che che il contenuto delle intercettazioni non aveva nulla di rilevante ai fini dell’indagine svolta ,come la procura di Palermo ha sempre chiaramente sostenuto ,può ,questa “irrilevanza” ,determinare scelte diverse nella procedura di distruzione di atti?
Se vi fosse stato qualcosa di rilevante nelle parole del presidente della repubblica le cose sarebbero state diverse .Trattare con la mafia,L’ANTI STATO, è tradimendo ,per la figura del presidente della repubblica alto tradimento.Ma nelle intercettazione ,a detta della stessa procura ,non vi è nulla di rilevante.Questi dialoghi registrati rimangono conversazioni private,quindi riservate.La questione mi sembra tutta quì.O mi sbaglio?
“Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo …”
Oso sperare che anche questa congiura di marca partitocratica-magistocratica non si tinga del solito antiberlusconismo ventennale. Sarebbe la fine d’ogni congiura e Berlusconi, vivente, il capro cui addebitare tutte le nequizie: oremus.