Lo scorso 26 aprile, presso la Sala del Munizioniere del Palazzo Ducale, il circolo genovese di LeG ha organizzato un incontro sulla crisi della giustizia e le possibili riforme in grado di arginare i problemi che troppo spesso toccano questo settore.
I relatori, Claudio Viazzi presidente del Tribunale di Genova e Guido Alpa presidente del Consiglio Nazionale Forense, sono stati intervistati dal professor Vincenzo Roppo.
Dall’incontro è emerso come il capitolo delle riforme della giustizia italiana sia da sempre tra i più nevralgici e affatto “neutrali” per la vita dei cittadini: la giustizia attinge le esigenze, anche più spicciole, dei consociati. La giustizia è e deve essere considerata a un tempo un “servizio” pubblico offerto alla collettività, cui corrisponde una “domanda di giustizia” e una domanda di servizi il più possibile rapidi e di qualità, e “funzione fondamentale dello Stato”, cioè uno dei poteri statuali che concorre a delineare l’architettura politico-costituzionale di un sistema.
E’ a partire da questa bipartizione che i relatori hanno ragionato delle possibili riforme della giustizia italiana, intesa sia nel suo aspetto più organizzativo (servizio ai cittadini), sia nella sua dimensione più costituzionalistica (funzione primaria dello Stato nei suoi rapporti con gli altri poteri appartenenti al modello costituzionale interno).
La irragionevole durata dei processi
Nel primo senso, uno dei problemi (rectius, patologie) più drammatici della giustizia italiana affrontati è stata la famigerata “irragionevole durata dei processi”, soprattutto civili (un discorso a parte andrebbe fatto per le cause penali, in cui la durata interminabile dei processi è anche il portato delle numerose garanzie offerte all’imputato).
Esso costituisce il “tallone d’Achille” del sistema, che alimenta un circolo vizioso, in cui gli unici a “festeggiare” sono i milioni di debitori che si sottraggono sistematicamente ai pagamenti e alle proprie responsabilità, sfruttando appunto la lentezza estenuante delle cause civili.
I relatori hanno fornito un quadro desolante della “salute” giudiziaria italiana, per mezzo di dati statistici molto autorevoli, quali i Rapporti 2004-2008 della Banca Mondiale Investimenti, in cui si sconsiglia caldamente di investire nei nostri mercati per il deficit di certezza del tempo del processo e quindi di certezza del diritto oppure gli ultimi reports della Banca d’Italia.
Le disfunzioni
Sono state evidenziate molteplici cause e concause di questo fenomeno capillare e preoccupante. Vi sono fattori positivi, come:
– la moltiplicazione dei diritti delle persone, che si traduce, com’è ovvio, in una moltiplicazione delle domande di giustizia;
– l’aumento del reddito medio della popolazione italiana, che è sinonimo di “più danaro per litigare” e maggiore disponibilità a percorrere tutti i gradi di giudizio su liti anche minori.
Vi sono però anche fattori che sono sintomatici di problemi e criticità, ne sono esempio:
– le disfunzioni nella Pubblica Amministrazione in generale, che innescano un meccanismo di proliferazione delle doglianze dei privati nelle aule giudiziarie (come avviene, ad esempio, in materia previdenziale);
– l’ipertrofia normativa, è assurdo pensare che neppure la Presidenza del Consiglio dei Ministri sappia censire quante siano le leggi vigenti;
– la disorganizzazione cronica delle circoscrizioni e degli uffici giudiziari. Si pensi ai Tribunali dei centri minori, che, se non funzionano, creano le c.d. “diseconomie di scala da mancanza di specializzazione”, in genere durano molto di più le cause presso i Tribunali in cui i giudici si devono occupare di tutte le tipologie di controversie, in quanto più difficilmente acquisiscono le tecniche e le regole proprie di ciascun settore specialistico. D’altra parte la soluzione, in punto di riforma delle circoscrizioni giudiziarie, non è scontata e non sempre è preferibile la soluzione dell’ “accorpamento” rispetto a quella del “decentramento”. Di certo è molto desolante il fatto, puntualmente documentato da reportage di giornalismo d’inchiesta, che in Italia sia molto facile introdursi abusivamente in cancellerie di uffici giudiziari e asportare interi fascicoli senza subire il minimo controllo;
– il mancato completamento dell’organico dei magistrati e la mancanza di chiarezza sulle funzioni e status dei GOT;
– le derive prodotte dalla pur meritevole (negli intenti) Legge Pinto, per il fatto che produce un meccanismo di distrazione di risorse statali che finiscono al privato anziché essere reimpiegate per finanziare il comparto giustizia e, non secondario, il fatto che spesso finisce per indennizzare soggetti affatto meritevoli di tutela, persino delinquenti. Per non parlare del paradosso per cui le cause trattate ex Legge Pinto in Corte d’Appello giungono alla precisazione delle conclusioni anche a distanza di 4 anni, che è già una durata “irragionevole”;
– le molte voci critiche sui tre gradi di giudizio, che peraltro non ricevono copertura costituzionale, ferma restando la garanzia del ricorso di legittimità per Cassazione (art. 111.7 Cost.);
-gli appesantimenti processuali e i non secondari profili di illegittimità costituzionale intorno all’istituto dell’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione in primo grado (su cui però è stata tranciante la Corte Costituzionale, ma forse il tema meritava una più approfondita riflessione, inquinata dalla circostanza che si trattasse della critica ad una legge ad personam);
– il numero esagerato di avvocati iscritti all’Albo. Questa è da molti (anche dalla Banca d’Italia in un recente rapporto sulla situazione giudiziaria italiana) ritenuta una delle cause della lentezza dei processi, ma la classe forense da sempre si oppone a questa equazione, soprattutto considerato che il Codice Deontologico forense è chiaro nel reprimere condotte abusive del processo, in linea con le più recenti pronunce della Cassazione (si veda su tutte, Sezioni Unite n. 23726 del 2007, sul frazionamento giudiziale di un credito unitario). Autorevoli esponenti del Consiglio Nazionale Forense all’uopo sottolineano la sempre maggior diffidenza, quasi ostilità, del legislatore nei confronti degli avvocati: basti pensare a consistenti settori in cui è stata prevista la facoltatività del ministero del difensore, quali le azioni di classe, la mediazione giudiziale e gli arbitrati della P.A., nonostante siano settori che incidono molto sui diritti dei singoli.
I rimedi
Si è poi discusso sui possibili rimedi de iure condendo a questa situazione patologica che ormai dura da decenni. I rimedi suggeriti al legislatore politico sono chiaramente speculari alle supposte cause del problema: si insiste su maggiori finanziamenti al Ministero della Giustizia (perché, senza budget, è inutile parlare di efficienza della macchina della giustizia); su un completamento dell’organico dei magistrati anche non togati; sulla riorganizzazione dei circondari; su un’ampia riforma della Legge Pinto e della stessa professione forense (perché è noto come i giudici si affidino molto alle argomentazioni degli avvocati nel formare le proprie decisioni); su ritocchi più penetranti alla riforma del processo civile italiano, poiché non bastano i nuovi termini di prescrizione e le preclusioni processuali (imputabili alla riforma c.p.c. del 2009), né può essere sufficiente l’intervento sul processo sommario di cognizione oppure sulle ADR.
Forse, in definitiva, come dicono molti autorevoli studiosi, la vera parola chiave dovrebbe essere “finanziare” e non “riformare”.
Giustizia intesa come funzione fondamentale dello Stato
Dopo aver discusso di Giustizia come servizio all’utenza dei cittadini, si è poi passati alla Giustizia intesa come funzione fondamentale dello Stato, molte sono state le riforme pensate ai vertici politici e su cui si discute a più riprese: il processo breve e il legittimo impedimento a presenziare alle udienze; la riforma radicale delle intercettazioni telefoniche nei processi penali e delle pubblicazioni sui giornali delle conversazioni captate; la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti con correlativa suddivisione entro il CSM; la revisione del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale; la riforma dell’azione disciplinare dei magistrati; i limiti all’elettorato passivo delle toghe.
Si assiste in generale ad una critica sistematica dell’operato dei magistrati e ad uno scontro sempre più acceso tra potere politico e potere giudiziario. Quasi si mette in discussione lo stesso modello costituzionale dei rapporti tra poteri, ovvero il modello in cui viene affermata: la garanzia del bilanciamento-controllo reciproco tra i poteri; un controllo sulle leggi da parte della Corte Costituzionale; la pluralità-diversificazione-parità delle legittimazioni dei tre poteri (quella della magistratura, non appieno valorizzata e rispettata, è quella del pubblico concorso) e un’idea forte e non meramente applicativa del giudice.
Sembra talvolta si voglia ritornare (tanto a destra quanto a sinistra) ad un modello “giacobino” alla Rousseau, in cui è sancita la supremazia del Parlamento sugli altri poteri in quanto espressione dell’unica legittimazione riconosciuta cioè il voto popolare, e in cui non c’è alcun sindacato sull’operato del legislatore politico e il giudice deve rimanere nei ranghi, come mero “bouche de la loi”.
Parafrasando le parole di Luciano Violante, vero è che nessun potere è disposto a riconoscere i mezzi ad altro potere se non sono chiari a monte i presupposti e i confini dell’attività di detto potere.