La Costituzione e le riforme

07 Aprile 2008

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

DUE DOMANDE AI PARTITI // LE RISPOSTE // Tutte le Costituzioni sono opere dotate di senso unitario: lo sono per il concetto stesso di Costituzione. Se non lo fossero – se cioè fossero scindibili in parti indipendenti – non “costituirebbero” un bel niente. Il senso di una parte potrebbe essere messa contro il senso dell’altra e, introducendosi “sensi” diversi, si farebbe opera non di costituzione ma di distruzione. Questo vale in generale e, in particolare, vale con riguardo alla distinzione che tra la prima e la seconda parte della nostra Costituzione. Non è vero che si può modificare una delle due parti, lasciando intatta l’altra.Gli esempi non sono difficili da trovare.Primo. L’art. 1 riconosce, come corollario della democrazia, che “la sovranità appartiene al popolo”, che “ la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il popolo è un concetto complesso, di sintesi del pluralismo. Non è un concetto unitario, olista, come nella democrazia di Rousseau. La sua rappresentanza politica richiede certe condizioni. Supponiamo – per assurdo – che si abolissero le camere rappresentative (seconda parte della Costituzione); o che – più facilmente immaginabile – le camere venissero depotenziate al punto che il loro ruolo fosse reso solo formale o lo si riducesse al punto di essere chiamate a esprimere un sì o un no alle proposte del governo; oppure, che il sistema elettorale portasse a risultati di schiacciamento delle minoranze e di iperrappresentazione o di rappresentazione totale ed esclusiva della maggioranza: supponiamo tutto questo.

Diremmo forse che queste modifiche dirette (con modifiche costituzionali) o indirette (attraverso la legge elettorale) non influiscono sull’art. 1 della Costituzione?Secondo. L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili della persona umana e gli artt. 13 e seguenti prevedono una serie di diritti specifici. La protezione di tali diritti è rimessa a istituzioni la cui disciplina sta nella seconda parte della Costituzione: innanzitutto la Corte costituzionale e l’insieme dell’organizzazione giudiziaria. Immaginiamo che si ponga mano alla composizione della Corte, ai suoi poteri, ai mezzi che i cittadini hanno di accedere a essa; oppure che si stabiliscano forme di soggezione della magistratura al potere e agli indirizzi della politica (governativa o parlamentare). Diremmo forse che tali modifiche non influiscono sui diritti che rappresentano uno dei contenuti principali della prima parte della Costituzione?Terzo. L’art. 5 stabilisce, come criteri organizzativi fondamentali, l’autonomia e il decentramento; l’art. 6 protegge le minoranze linguistiche. Sono questi principi insensibili a modifiche che possano riguardare il Titolo V della seconda parte della Costituzione, oppure la struttura del Senato, come organo delle autonomie?Quarto. L’art. 3 della Costituzione, che prevede il principio di uguaglianza, oltre che nel suo lato formale anche in quello sostanziale, e gli artt. 26 e 28, che prevedono la salute e l’istruzione come diritti sociali, sarebbero insensibili a modifiche della seconda parte della Costituzione, circa il potere di spesa e i limiti dell’indebitamento dello Stato, delle Regioni e degli enti locali? E sono forse insensibili alle riforme che possano interessare l’articolazione sul territorio dei poteri, centrali, regionali e locali in materia fiscale?Sono solo esempi.

Essi dimostrano ciò che non si potrebbe disconoscere: la prima parte della Costituzione, che contiene principi fondamentali di sostanza, non è indipendente dalla seconda, che contiene le norme organizzative che servono a farli valere o che, comunque, ne condizionano l’attuazione. La distinzione sulla quale – credo – ci si dovrebbe attestare con molta chiarezza non è dunque tra “parti” della Costituzione ma tra i suoi fondamenti sostanziali e organizzativi, da un lato, e le loro regole attuative, dall’altro: fermi i primi, sulle seconde si può certamente discutere, perché le modifiche e gli adeguamenti (ad es. del Senato, alla nuova struttura decentrata dei poteri pubblici; del governo, alle esigenze di efficienza della sua azione; delle maggioranze di garanzia, alla logica bipolare, ecc.) sono certamente possibili e, in diversi casi, anche utili. Ciò che si chiede è dunque un chiaro impegno al mantenimento, nella sua essenza, della Costituzione che abbiamo (con tutti i perfezionamenti che si possano ritenere opportuni). E’ chiaro che, in concreto, potranno sorgere contrasti interpretativi sulla portata di questa o quella proposta di innovazione, se essa stia entro o sia fuori di questa Costituzione. Penso ad es. al tema del rafforzamento dell’azione del governo o, come si dice, del premierato. Ma sarebbe già un fatto di chiarificazione se si accettasse la premessa che, al Parlamento, i poteri e le garanzie che oggi gli spettano in generale (la legislazione, il controllo sul governo – sfiducia, costruttiva o non costruttiva, compresa –; lo scioglimento come strumento di garanzia, non di lotta politica) non potranno essere sottratti, quali che siano le innovazioni riguardanti il governo, i poteri del presidente del Consiglio, i meccanismi a favore della razionalizzazione degli schieramenti politici in Parlamento.

Aggiungerei, in questa prospettiva, la richiesta di un impegno a favore (oltre che della riduzione numerica) anche della qualità della rappresentanza che si esprime nelle due Camere, una qualità che, oggi, rischia di rendere la difesa dei poteri e delle prerogative del Parlamento una azione, per quanto nobile alla stregua dei sacri principi del costituzionalismo liberal-democratico, assai poco dotata di senso, in relazione alle sue condizioni concrete.Sono queste posizioni di retroguardia, che si possano bollare come quelle dei soliti “parrucconi” da parte degli altrettanti soliti “innovatori”? No. Sono esclusivamente scelte di politica costituzionale, alle quali si contrappongono altre scelte, anch’esse di politica costituzionale che, come tali devono essere valutate. La contrapposizione “vecchio” e “nuovo” è totalmente priva di significato in materia costituzionale: essa nasconde diversi modi di concepire i rapporti in questa materia e su questi modi come tali, non perché vecchi o nuovi, ha senso fare chiarezza.

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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