Tra i vari motivi di sconcerto per la strada imboccata dal dibattito sul caso Sgrena (non ultimo un crescente fastidio per tutta la retorica che lo caratterizza), ce n’è uno che più degli altri mi inquieta: la straordinaria rassegnazione, direi quasi l’assoluta indifferenza sul fatto che dall’Iraq ormai non si abbiano più notizie di prima mano. Quasi si trattasse di un mondo a noi del tutto estraneo, una sorta di corpo celeste disperso nello spazio. Voglio essere sincera fino in fondo: non noto l’ombra di rammarico in coloro che avvertono: fuori i giornalisti da laggiù, non siamo in grado di proteggere nessuno. Non ha speso una parola Berlusconi, quando si è espresso in Parlamento. Non il ministro degli Esteri, il quale è parso addirittura accusare Giuliana Sgrena di voler inseguire una sua vanitosa ambizione. “Bellissimo mestiere”, è stato detto, il giornalismo, ma non tornate in Iraq. Io invece non mi rassegno. Sono assolutamente d’accordo sulla impossibilità di qualunque giornalista italiano di restare in quel campo di battaglia, non vorrei mai sapere che in questi giorni qualche collega sta sfidando la sorte e sta lavorando in Iraq. Troppo è il pericolo, il rischio: direi quasi la certezza del sequestro. Ma tutto ciò mi lascia inquieta. Credo che un precedente così non sia facile trovarlo. Dovremo ad esempio aspettare che l’auto di Calipari, dell’altro agente del Sismi e della Sgrena arrivi in Italia per vedere con gli occhi dei nostri cronisti da dove e quanto si è sparato.
Dobbiamo appagarci di ogni e qualunque versione ufficiale ci provenga dalla commissione Usa-italia sulla questione delle informazioni date o non date sulla missione. Dovremo leggere sui giornali stranieri il corso della guerra, i tentativi di formare un nuovo governo, le tappe di una ricostruzione sempre annunciata e così drammatica nel suo avvio. No, non è una situazione normale e nessuno può farci credere che tutto questo sia ininfluente soprattutto rispetto alle modalità dell’impegno italiano in quella situazione. Un altro tema che appassiona è ovviamente quello del riscatto: pagare o non pagare, trattare o non trattare? Si rispolvera il dibattito che divise il Paese in altri momenti storici, quando la fermezza univa una gran parte del mondo democratico, teso in un disperato sforzo di vincere ora l’industria crudele dei sequestri, ora la tragedia del terrorismo. Fu saggio, anche se doloroso, imboccare la linea dura, anche se non fu scelta ferrea. Ma allora appunto c’era un intero Paese a combattere il cancro, c’era il comune sentire degli italiani a voler uscire dagli anni di piombo. Oggi, sull’Iraq, l’Italia è divisa. Saremmo in grado di assistere senza far nulla al rapimento di altri italiani? Reggerebbero le istituzioni che fino ad oggi hanno scelto una strada diversa Io non ho certezze, lo ammetto. Temo coloro che ne hanno troppe e tanto recenti. Comunque proprio ieri l’Herald Tribune in un articolo sul giornalismo, ricordava le parole di uno dei padri della Costituzione americana, James Madison: “I governi del popolo, senza una informazione del popolo, o senza i mezzi per poterla fare, non sono che il prologo o a una farsa o a una tragedia.
Cerchiamo almeno di non perdere, sulla lunga strada dell’Iraq verso la democrazia, annebbiata da retorica e strumentalizzazioni, la bussola della nostra democrazia.
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