Non ci sono più giornalisti italiani in Iraq, almeno in questo momento, in grado di raccontare cosa succede. Ce ne è una sola, Giuliana Sgrena, che però è chiusa in qualche oscura prigione, e a lei, insieme alla libertà personale hanno sequestrato la possibilità di fare il suo lavoro. L’informazione è stata la prima vittima di questa “giovane democrazia”, di questa democrazia nascente.
Ho letto con emozione l’articolo di Renato Caprile su Repubblica, la cronaca dell’ultima notte a Bagdad di un cronista e mi sono messa a pensare a tutte le contradizioni e ai paradossi della democrazia, nel momento in cui anche a Bruxelles non si parla d’altro, con molta retorica, con molta diplomazia, con una dose di supponenza.
Ma io penso sempre che in qualunque luogo del mondo e in qualunque tempo se non ci sono le condizioni per fare informazione non c’è democrazia, nemmeno un barlume. Il coraggio del voto non è sufficiente, in un certo senso non è nemmeno un primo passo se la possibilità di informare non diventa la prima sfida, la prima necessità cui far fronte.
Nel suo discorso all’Europa, anche Bush lo ha sottolineato, rivolgendosi a Putin: “dobbiamo sempre ricordare alla Russia che la nostra alleanza è a favore di una stampa libera, di un’opposizione vitale, della condivisione del potere, e del rispetto del principio di legalità”: anche Bush, seguendo la tradizione filosofica anglosassone, mette la stampa al primo posto in questo breve elenco di pilastri della democrazia.
C’è però da domandarsi se la protezione di tutti i giornalisti, non solo occidentali, è stata messa al primo posto dai governi impegnati in Iraq.
Oppure se molti di loro, con le loro pagine scritte, le telecamere, col resoconto giornaliero delle atrocità della guerra, dei costi, delle morti non siano diventati un problema. La tentazione di spegnere i riflettori e di riaccenderli magari solo per mostrare il coraggio dei cittadini in fila per andare a votare deve essere stata forte. A chi importa davvero se i giornalisti italiani non possono più scrivere?
Non penso assolutamente che qualcuno, oltre ai terroristi, si stia attivamente adoprando per impedire l’informazione.Temo però che la politica non stia facendo tutto il possibile per sostenere e dunque proteggere il ruolo della stampa, per affermare che anche questa guerra, va raccontata.
Penso che così stiano le cose anche perché così è sempre accaduto. Perché sappiamo quali e quante siano state le pressioni negli Stati Uniti affinché i giornali relegassero i soldati Usa uccisi in spazi limitati. Perché non ho trovato una sola riga nel discorso di Bush sui morti iracheni e americani. Dunque si passa alla strategia della diplomazia preventiva senza aver mai messo in dubbio l’efficacia e la giustizia della guerra preventiva.
La parola d’ordine, condizione necessaria per le nuove intese mondiali, è quella di non ripensare al passato. Non dividersi fra chi aveva ragione e chi aveva torto. Nel nome dei primi passi della democrazia irachena.
Benissimo. Allora sarebbe giusto che quando si chiede che il contingente italiano possa rimanere e contribuire alla sicurezza della “giovane democrazia”, si pretenda anche sicurezza e protezione per i nostri giornalisti.
In via preventiva, non solo dopo che sono stati rapiti. Impossibile? A rifletterci bene la questione riguarda in primo luogo la nostra democrazia: abbiamo diritto di essere informati su quello che avviene in un Paese dove peraltro siamo impegnati con non trascurabili forze militari. Il ritiro dei nostri giornalisti, se non è soltanto un fatto temporaneo legato a una situazione particolare, apre una nuova prospettiva nella discussione in corso.
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