La lingua sporca dei giudici

01 Lug 2019

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Il linguaggio che usiamo parlando in confidenza e intimità è un trojan. È una spia autentica, degnissima di fede. Via le maschere artificiali della decenza e della convenienza, mette in mostra una sostanza. Se vogliamo sapere di che cosa è fatta la stanza e chi la abita, consideriamo il linguaggio.

Esso è materia che “pensa e crea per noi” e, dunque, più che essere strumento nelle nostre mani, noi siamo strumenti nelle sue. O meglio: c’ è coincidenza; siamo come parliamo e parliamo come siamo. Noi parliamo una lingua, ma la lingua parla per noi, con noi, di noi e talora contro di noi. Esiste la “sociolinguistica” che studia il rapporto tra le forme della comunicazione verbale e le strutture sociali: la lingua dei mafiosi non è la stessa dei soci dell’ Accademia dei Lincei, la lingua delle diverse massonerie è fatta per intendersi tra “fratelli”. La lingua del III Reich ( LTI – Lingua Tertii Imperii , dal titolo d’ un libro dal fascino cupo del filologo Victor Klemperer), non è la stessa del fascismo e, a maggior ragione, della democrazia. S’è parlato di linguaggio dei tempi democristiani, craxiani, berlusconiani, renziani.

Sarebbe utile studiare la lingua salviniana. Entriamo ora in una “stanza”, e andiamo nell’ angolo riservato d’ un albergo ancora aperto a ora tarda, quando di solito c’ è silenzio. All’ estraneo, il significato dei discorsi non è chiaro.

L’atmosfera è iniziatica, si capisce che ci sono manovre in corso, ma sfuggono i legami, gli obbiettivi, il senso: per comprendere occorrerebbe decrittare, ricostruire, inferire e dedurre, cose da cultori della materia.

Friedrich Schiller, di cui ho adottato, adattandolo, il bel motto citato all’ inizio, potrebbe però trovare conferme nel linguaggio che quei pensatori e creatori usano tra loro, intendendosi perfettamente.

Segue un piccolo repertorio. Quello, bisogna dirgli che ha rotto il cazzo; me lo metto a pecora. Il cazzo sembra avere un ruolo importante nella faccenda, perché viene evocato con frequenza: uno se l’ è rotto e un altro l’ ha rotto a un terzo. Uno ha inculato un altro, ma c’ è uno che è stato inculato a sua volta. Ci si prende, dunque, vorticosamente per il culo. Uno a un altro, il culo, l’ ha sempre protetto, però ora basta, rompiamogli il culo!

Ma anche le palle e i coglioni hanno la loro importanza, perché ce li si rompe e ce li si spacca gli uni con gli altri, vicendevolmente. E poi ci sono quelli che, i coglioni, li hanno e quelli che no, e si capisce che si meritano trattamenti diversi. Non mancano accenni escrementizi, perché uno, al Quirinale, va su, mentre un altro si ferma al cesso, mentre c’ è anche uno che, a quell’altro, gli caga il cazzo. In sintesi: è tutto un vaffanculo.

Non che ci si debba necessariamente scandalizzare pudicamente d’ una volgarità che, peraltro, fa pensare ad adolescenti non ancora ben formati, ossessionati dal sesso e dall’ano: il linguaggio forbito e lo stile diplomatico, infatti, possono essere altrettanto funzionali, o forse più, a ogni genere di scelleratezze confezionate in carta patinata. Del resto, si può fare del bene anche bestemmiando, e il buon Dio, che sulla bilancia della sua giustizia pesa le due cose, i fatti e le parole, forse non se ne dorrebbe particolarmente.

Senonché, quel linguaggio s’accompagna alla totale assenza di parole e idee che abbiano a che fare con le responsabilità dei turpiloquenti: magistrati in servizio ed ex-presidenti dell’ associazione dei magistrati, parlamentari ex-ministri, parlamentari ex-magistrati. Quello è un linguaggio della totale vuotezza etica, compensata da un pieno di trame, trattative, ricatti, diffamazioni e violenze, tipici di quei “giri di potere” parassitari che si aggirano nella zona grigia delle istituzioni. Esattamente come il linguaggio in cui si esprimeva ciò che un tempo si definiva “il sotto-Stato”. È il brodo di coltura dove alligna la pubblica corruzione, riemerso di recente e prepotentemente nel “mondo di mezzo” di Mafia-capitale, così definito e perfino teorizzato dai suoi stessi protagonisti.

Ci sono, in questo squallore, aspetti penali? Si vedrà. Tuttavia, non ci dovrebbe essere (stato) indugio alcuno a fare pulizia, e per ragioni che vengono molto prima e che sono molto più pesanti degli aspetti strettamente giuridici. Il diritto penale non è la prima ratio, ma l’ extrema ratio, alla quale si ricorre alla fine, quando si sia dimostrata l’ inefficacia d’ altre misure previe. Per questo, che non ci siano condanne giudiziarie non significa nulla. Chi ricorre a questo argomento cerca di usare il diritto penale come paradossale magna charta dei corrotti. Il presidente della Repubblica ha detto parole non consuete e non interpretabili in modo diverso dalla condanna non in termini penali, ma in termini di “disciplina e onore”, come dice l’ art. 54 della Costituzione. Anche qui, si vedrà se la ramificazione e la potenza degli interessi in campo, che intrecciano tra loro uomini di partito e uomini della giustizia, riusciranno, guadagnando tempo, a fare finta di nulla ancora una volta.

La posta in gioco è molto alta, più alta di quella che si usa definire con espressioni alquanto generiche, come credibilità e fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. C’è di più e di più specifico: un crimine contro la gioventù, la gioventù nella quale riponiamo speranze. In molti conosciamo tanti ragazzi e ragazze che si dedicano con passione e determinazione allo studio del diritto, attratti dalla magistratura, con la vocazione di servire il loro e nostro Paese, e con il desiderio di contribuire al miglioramento della società per mezzo della legalità. Che cosa possono pensare di fronte a questi esempi repulsivi? Se fosse possibile, dovrebbero costituirsi “parti lese” in un ideale processo di liberazione, insieme ai tanti magistrati alieni da quelle pratiche e sfiduciati nei confronti della professione che essi scelsero, un tempo, con quella medesima vocazione e con quel medesimo desiderio.

la Repubblica, 27 giugno 2019

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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