Quando disobbedire è una virtù repubblicana

13 Aprile 2019

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Appellarsi alla legge è, di norma, la difesa contro l’arbitrio, la violenza e la paura. Le leggi, dicevano gli antichi, sono mura che proteggono la città. Perciò, alle leggi si deve ubbidire. Lo dice, come cosa ovvia, anche l’articolo 54 della Costituzione. Ubbidire sempre? Anche quando la legge legalizza arbitri, violenza e paura?

Davvero la Costituzione immagina, come ideale, una massa d’individui passivi, marionette mosse dai fili tenuti in mano da un burattinaio-legislatore? Ubbidire anche quando lo Stato di diritto si trasforma in “Stato di delitto”, secondo la celebre espressione di Hannah Arendt a proposito dei regimi totalitari dell’ Europa tra le due guerre? La questione ha un aspetto morale e uno giuridico.

Dal punto di vista morale, da sempre si discute del rapporto tra i doveri di coscienza e i doveri legali. Basta ricordare Antigone e la sterminata riflessione che s’è svolta nei secoli sul diritto di resistenza e sulla disubbidienza civile. C’è, però, anche l’ aspetto strettamente giuridico: nel nostro sistema costituzionale, alla legge si deve ubbidienza incondizionata fino al momento in cui essa eventualmente sia abrogata o dichiarata incostituzionale?
Insomma, valgono oggi illimitatamente gli assiomi legalistici: ita lex, e dura lex sed lex?

Rispettare le leggi è un obbligo. Sempre? Anche quando violano principi costituzionali e sono in gioco valori ultimi come la vita e la dignità delle persone? Dai tempi della rivolta dell’Antigone di Sofocle è il grande dilemma del diritto. Ma senza il coraggio non può esserci libertà. La questione – ripeto: non in astratto ma secondo il vigente ordinamento giuridico – non è nuova.

Si è affacciata numerose volte, di fronte all’eventualità di leggi che volessero imporre ai medici l’obbligo di segnalare all’autorità di P.S. gli stranieri che richiedano assistenza sanitaria alle strutture ospedaliere; oppure, di fronte ad analoga imposizione ai presidi di scuola, per i figli di genitori irregolari. In questi casi, la sollevazione preventiva contro una sorta di caccia al clandestino aveva fatto recedere il legislatore dai suoi propositi.

In altri casi, la disobbedienza pubblica, rivendicata anche per mezzo di autodenunce, ha riguardato il servizio militare, e ha condotto dopo tante polemiche all’abolizione dell’obbligatorietà; l’ indiscriminata punizione penale dell’ interruzione volontaria della maternità, e ha portato alla legge 194; la criminalizzazione dell’ aiuto all’eutanasia, e ha portato a una decisione della Corte costituzionale che, rivolgendosi al legislatore, ha prefigurato, in mancanza di una legge nuova, la dichiarazione d’ incostituzionalità di quella vigente.

Recentemente, si è discusso della registrazione allo stato civile di bimbi come figli di coppie omosessuali, dell’ adozione da parte di singoli, eccetera. Infine, la polemica è scoppiata di fronte al rifiuto di diversi sindaci di applicare norme sul respingimento di persone salvate dal naufragio nel Mare Mediterraneo. Come si vede, niente di nuovo sotto il sole. Ma l’ ultimo caso ha fatto scandalo, quasi che si tratti di un unicum, di un atto insurrezionale.

Come considerare questi casi secondo il sistema costituzionale in vigore?
Innanzitutto, il citato art. 54 prescrive bensì l’ osservanza della legge, ma anche della Costituzione, innanzitutto della Costituzione e poi della legge.

Se la legge è conforme alla Costituzione, tutto bene. Ma se non lo è? Sarà prevedibilmente dichiarata incostituzionale. Ma qual è la situazione della legge incostituzionale prima del suo annullamento? Si è molto discusso. Si dice da taluno: solo alla Corte costituzionale spetta il giudizio in proposito. Perciò, fino a quando non vi sia dichiarata incostituzionale, della legge si deve presupporre la validità e quindi l’ obbligatorietà. L’ espressione: legge incostituzionale prima della relativa decisione della Corte costituzionale sarebbe un non-senso.

Vera la premessa, falsa tuttavia è la conseguenza. Vediamo.
Colui il quale ha contestato la legge violandola incorrerà nelle sanzioni previste, ma contro di esse si potrà aprire un giudizio durante il quale è possibile sollevare una questione d’ incostituzionalità sulla norma che prevede la sanzione, questione che sarà decisa dalla Corte. Se la legge è incostituzionale, sarà annullata e non potrà essere applicata contro tutti coloro che l’ abbiano violata. Anche qui, niente di nuovo: la prima decisione della Corte costituzionale è stata promossa precisamente in questo modo, per iniziativa di trenta disobbedienti che invocavano il diritto di libera espressione a mezzo stampa.

È evidente che ciò si svolge sotto il segno dell’ incertezza: non si può sapere a priori se il giudice solleverà la questione di fronte alla Corte costituzionale, né se questa annullerà la legge.

Coloro che si assumono la responsabilità di attivare questo meccanismo non sanno se l’esito sarà favorevole o sfavorevole.
Agiscono in nome di un valore più alto della mera legalità accettando una scommessa che può essere perduta. Il che è quanto dire che la legge può essere trasgredita, ma a proprio rischio e pericolo. Il violatore apparirà, ma solo ex post, o come un “fuorilegge”, oppure come un benemerito della Costituzione. La disobbedienza consapevole è dunque una possibilità implicitamente prevista per promuovere il controllo di costituzionalità delle leggi. Se tutti osservassero pedissequamente, passivamente, tutte le leggi che prescrivono o vietano determinati comportamenti, non si aprirebbero procedimenti giudiziari e, quindi, non si avrebbe l’ occasione di attivare il giudizio di costituzionalità. Potrebbero rimanere in vigore indefinitamente leggi incostituzionali, poiché tutti vi si adeguano.

Questa conclusione potrà non piacere a chi, in nome dell’ autorità e della certezza del diritto, pensa alla legge come nomos sovrano assoluto che non ammette replica. Ma la legge, da quando è stata collocata sotto la Costituzione, può essere contestata. La sua validità è esposta alla critica da parte di coloro che una volta i giuristi, con un’ espressione ciceroniana, chiamavano servi legum, espressione oggi impropria, essendo i servi diventati custodi della Costituzione in alleanza con i tribunali.

Il giudizio di costituzionalità delle leggi, al quale i cittadini possono accedere nelle forme previste, non è dunque un freddo meccanismo giuridico.
Implica un ethos pubblico che investe la responsabilità diretta dei cittadini nel difendere i principi della Costituzione.

Perfino la disobbedienza alle leggi, nei casi estremi in cui sono in questione valori ultimi come la vita, la libertà, la dignità delle persone, è una virtù repubblicana, quando significa rifiuto di convalidare l’ ingiustizia con la propria ubbidienza. Tutte le volte che ubbidiamo alla legge, infatti, la fortifichiamo con la nostra acquiescenza: se la legge è giusta, fortifichiamo la giustizia, ma se è ingiusta fortifichiamo l’arbitrio.

Si dirà: ma tutto ciò implica coraggio, presuppone che ci si metta in gioco e si assumano rischi. Sì. E con ciò? La libertà non sa che farsene degli imbelli, dei paurosi, di coloro che pensano solo alla propria tiepida sicurezza. E gli imbelli e i paurosi, a loro volta, non sanno che farsene, della libertà.

 la Repubblica, 12 aprile 2019

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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