Gennaro Sasso: “L’esercizio della filosofia è sterile ma non si può farne a meno”

12 Mar 2013

Gennaro Sasso, il più autorevole studioso italiano di Machiavelli e Croce, è da anni amico di Libertà e Giustizia e fa parte del consiglio di Presidenza della nostra associazione. Legato al Partito d’Azione, imparentato con Guido Calogero, professore per mezzo secolo di filosofia, Sasso in tutto ciò che dice e pensa mostra il senso della distanza.

Un impasto di pessimismo radicale e serietà filologica, così mi appare Gennaro Sasso, il più autorevole studioso italiano di Machiavelli e Croce. Nelle cittadelle di quelle due esperienze egli ha ricavato una certa idea dell’Italia tutt’altro che edificante. E non riesco a immaginare uno studioso che più di lui si sia votato alle questioni della laicità. Legato al Partito d’Azione, imparentato con Guido Calogero, professore per mezzo secolo di filosofia, Sasso in tutto ciò che dice e pensa mostra il senso della distanza. È come se le sue scelte si annidino nella storica e inflessibile rivendicazione del proprio remoto status di professore: «Lo sono stato per oltre mezzo secolo, svolgendo il ruolo con onestà e rigore. E posso aggiungere che oggi l’insegnamento mi manca».
Sasso ha da poco concluso il suo lungo viaggio nell’idealismo italiano (sei volumi apparsi negli anni e pubblicati da Bibliopolis), ha dato alle stampe un libro sul tema della decadenza (edito da Viella) e un volume — che va accolto con delicatezza — dedicato al figlio scomparso circa tre anni fa.
Non le sembrano troppi sei volumi sull’idealismo italiano?
«L’ampiezza non è mai stata programmata come tale. E considerando la cosa “mostruosa” che ne è venuta fuori mi verrebbe da dirle che è stata anche una reazione alla cultura contemporanea italiana che ha totalmente ignorato quell’esperienza».
La riparazione di un torto culturale?
«Diciamo l’esigenza di metter mano a un’assenza vistosa. Aggiungo che non mi sono mai considerato un idealista, né un crociano né un gentiliano, e che ho sempre cercato di prendere contatto con quel pensiero a prescindere dall’adesione che ne davo».
Ma, alla fine, perché tanto interesse per una storia ormai fuori dal nostro orizzonte?
«Forse perché è stato il solo tentativo serio di formare una tradizione filosofica italiana. Peraltro fallito».
Fallito, probabilmente, anche perché le figure più rappresentative — Croce e Gentile — si identificarono con due esperienze politiche che in tempi diversi uscirono sconfitte: il fascismo e il liberalismo.
Indubbiamente contribuì. Di Gentile sono note le vicende. Scaturite da anni tragici. Mentre penso che l’aspetto più drammatico del crocianesimo fu che appena toccato il suolo della libertà politica in un certo senso si perse».
A proposito di “anni tragici”, che furono quelli della guerra, come li ha vissuti?
«La cosa più nitida che ricordo fu vedere da qui, dall’Aventino dove praticamente ho sempre vissuto, l’incendio di San Lorenzo dopo il bombardamento. Era il 1943. Mi sentii scosso dagli echi drammatici di quell’evento».
E cosa fece?
«Avevo quindici anni. Qualche tempo prima scoprii al ginnasio che il mio compagno di banco, ebreo, era stato deportato. Trovavo umilianti le adunate in cui ci vestivamo da balilla o da avanguardista. Maturai così un odio verso il fascismo e quell’ambiente retorico e paramilitare. Poi giunse la Liberazione e l’università, che feci a Roma tra il 1946 e il 1950».
Chi furono i suoi maestri?
«Luigi Scaravelli, Pantaleo Carabellese, Carlo Antoni, Gaetano De Sanctis, Antonino Pagliaro, Natalino Sapegno, al quale devo la conoscenza durante un esame, di Cesare Garboli. Diventammo molto amici. E infine Federico Chabod che ai miei occhi rivestiva un fascino particolare».
Perché?
«Era il tramite con Machiavelli. E quando pubblicai il libro, Chabod mi disse: ora potresti cominciare a occuparti della curva dei prezzi in Europa. Gli risposi, un po’ imbarazzato, che in quel momento stavo studiando Averroè. A quel punto mi considerò perduto. Conservò sempre la sua benevolenza e in omaggio alla mia decisione di occuparmi di filosofia, e non di storia, ironicamente mi soprannominò doctor subtilis facendomi vergognare come un ladro».
Lei è un po’ capzioso.
«La filosofia è un modo preciso di esercitare il pensiero».
Ossia?
«Un modo teoreticamente strutturato. La mia predilezione va a filosofi come Fichte, Hegel, soprattutto Kant. Ma il modello per me è stato Il sofista di Platone. Il pensare storicistico mi è sempre parso di scarso rilievo e infatti la mia interpretazione di Croce è stata di portarlo al di là dello storicismo».
Lei professa una filosofia totalmente staccata dalla realtà. Non c’è il rischio che sia inutile?
«Non riesco a capire quei pensatori, per i quali ho anche stima, che devono dare un senso al mondo. Sento l’esercizio fitato. «Se si entra nella dimensione del pensiero si è catturati da questo tiranno che ti prende e ti impedisce, per una serie di difficoltà concettuali, di entrare in contatto con il mondo».
La filosofia come un carcere?
«Essa non ti concede nessuna libertà al di fuori del suo esercizio ».
E il mondo, i suoi valori, le sue trasformazioni, come li si affronta?
«Con altri strumenti. Ci sono le scienze storiche e sociali, c’è la politica. E quei pensatori che non si sono lasciati risucchiare dal puro vortice speculativo».
Come Machiavelli?
«Fu un uomo di grandissima intelligenza ma non un filosofo. La filosofia, voglio dire, è fornita di un’intelligenza particolare ».
Come l’intelligenza matematica?
«In qualche modo sì. Lo spazio filosofico è intensissimo ma molto stretto. Fuori da questo c’è quel mare tempestoso di cui parla Kant. E lì effettivamente si deve navigare a vista, con strumenti di volta in volta costruiti».
Il suo sembra un inno alla precarietà.
«Temo di doverle dare ragione. La situazione che abbiamo creato negli ultimi sessant’anni mi appare ingestibile. Abbiamo perfino dato luogo a una costruzione europea che è una falsa costruzione: una prigione nella quale tutti rischiamo di morire asfissiati».
Politicamente ha partecipato alla fase dell’azionismo. Che esperienza è stata?
«Fondamentale e minoritaria. Ebbi in sorte di assistere come rappresentante della gioventù d’azione a una parte del famoso congresso della scissione e lì conobbi Leo Valiani con il quale ho avuto rapporti per tutta la vita».
Perché fallì l’azionismo?
«Perché c’erano uomini di grande valore ma con scarsa esperienza politica. Del resto, abbiamo vissuto dal 1945 fino alla caduta del Muro con la convinzione che bisognasse o impedire o fare la rivoluzione comunista. Due diverse campane che ci hanno rintronato. D’altro canto, non c’è mai stata una rivoluzione borghese. Ma come farla in un paese che ha conosciuto solo a sprazzi una vita politica davvero laica?».
Cosa vuol dire laico?
«Significa stare fuori dalle religioni. Con tutto il rispetto di chi la pensa diversamente, non riesco a immaginare che uno possa essere contemporaneamente uomo di fede religiosa e laico».
Non è una contrapposizione troppo manichea?
«C’è un tipo laico, molto italiano, che fa tutte le cose fondamentali — nascita, matrimonio, morte — sotto la guida della Chiesa e per il resto ritiene di essere libero. E no. La religione ha un proprio codice di valori che impongono non solo comportamenti ma anche pensieri».
Qual è il punto più importante che un laico deve difendere?
«Riconoscere agli uomini oltre il diritto di vivere anche quello di morire. Uno deve scegliere come crede. Non è possibile che la vita venga imposta al di là di quello che la natura dice o che noi, essendo coscienti, diciamo. In questo c’è l’essenza del testamento biologico».
Cosa rappresenta per lei la morte?
«È un ospite che non ricevi mai quando arriva. Diceva Shakespeare nel Giulio Cesare che la morte verrà quando verrà e tu sei interamente nelle sue mani. Ma la morte degli altri no, contemplandola dal vivo, la vedi nel suo elemento tragico».
Lei mi fa pensare a un strano contrasto.
«Sarebbe a dire?».
C’è nelle sue ricerche, nei suoi studi, un costante richiamo alla “decadenza”, al “tramonto” — penso anche a quel bel libro che lei dedicò all’idea di progresso — ma poi tutto questo è come se avvenisse al riparo dal caos e dai tumulti, starei per dire, dalla vita vera.
«Intende dire che è come se io quel “mare in tempesta” l’abbia visto solo in cartolina?».
In un certo senso è così. Quel pessimismo che vedo e che ritrovo in molte cose che lei scrive — perfino nel suo amatissimo Machiavelli — è una condizione dalla quale non può prescindere, ma nella quale non vuole perdersi.
«Non è una considerazione facile. Come se mi stesse chiedendo non già dei documenti letterari ma esistenziali».
Forse tutti e due.
«Potrei dirle banalmente che sono nato con una inclinazione malinconica che mi spinge a vedere l’aspetto negativo delle cose. E il fatto di aver scelto un mestiere che sì mi metteva a contatto con il pubblico ma mi consentiva di restare sempre dentro di me — perché questo è un professore — è la conferma che abbia cercato di proteggermi da quel mondo che pure ho indagato. Come è vero che non ho mai amato stabilire troppi contatti con l’esterno. Sono sempre stato piuttosto appartato difendendomi, così, dal mio pessimismo».
Mi ha molto colpito — per la natura pubblica e privata — il libro di testimonianze visive e scritte che lei ha dedicato a suo figlio Roberto. È come se avesse deciso di abbattere quelle difese che si era costruito.
«Non lo so, sinceramente. Roberto era una persona molto riservata. Ha vissuto alcune traversie ma, al tempo stesso, è stato un uomo pieno di idee musicali e letterarie che ha sostenuto, ma sempre defilandosi. Mi è sembrato giusto far conoscere in pubblico tutto ciò che per timidezza aveva nascosto in vita. Lui è morto nel 2009. Quel giorno, era il 20 novembre, tornavo con mia moglie da un concerto. E quando la notizia ci raggiunse fu terribile. Da allora non ho più ascoltato musica, non sono più entrato in un teatro o in un cinema».
«Roberto se ne è andato in pochi minuti, per un arresto cardiaco. Mi sono sentito colpevole. Di cosa? Può chiedermi. Non lo so. Forse di essergli sopravvissuto. Vede questa piccola foto, di me e Roberto a due anni? Siamo sulla spiaggia di un giorno di ferragosto degli anni Cinquanta. E c’è come un senso di protezione. Ma è come se poi negli anni io non abbia protetto niente. D’altra parte, cosa avrei dovuto proteggere se un cuore si fulmina come una lampadina? È solo innaturale che un genitore sopravviva al proprio figlio».
Quelle righe che lei scrive sono anche il modo di affrontare la sua pena e un po’ liberarsene.
«Le ho scritte così, senza pensarci. E se l’ho fatto è anche perché egli conobbe e praticò, come pochi, la scienza dell’amicizia ».

 

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