Svegliamoci

22 Mag 2012

Sovrapposti alle immagini dei funerali di Mesagne e delle macerie in Emilia, fotogrammi di un’Italia fragile e sconvolta, i risultati elettorali hanno il valore di uno spartiacque. Non si riducono al semplice rinnovo delle amministrazioni locali.
Se così fosse, il discorso sarebbe presto chiuso e avrebbe ragione Bersani ad ammonire: «nessuno ci rubi la vittoria», visto che le liste riconducibili al centrosinistra hanno conquistato 92 o forse 93 municipi.
Eppure questa contabilità certosina non tiene conto della dinamica del voto. Mai come in questa occasione gli italiani hanno messo sotto accusa un sistema politico malato e refrattario a ogni riforma. Lo hanno fatto andando alle urne per celebrare Beppe Grillo, oppure restando a casa per segnalare distacco e indifferenza: non a caso l’astensione nel secondo turno ha raggiunto il 50 per cento, contraddetta solo dal risultato di Parma dove è stata contenuta al 39 per cento. Se alle astensioni si sommano i voti di protesta, variamente espressi, abbiamo un sistema parzialmente delegittimato. Dove i sindaci eletti, compresi quelli che permettono a Bersani di parlare di vittoria, lo sono con percentuali di forte minoranza.

Nel frattempo il centrodestra conferma la sconfitta del primo turno e dà l’idea di un vascello alla deriva, in attesa di rientrare nel bacino di carenaggio per essere ricostruito. Quanto alla Lega, la disfatta è completa; con la conseguenza che il blocco del centrodestra al Nord, fattore politico dominante negli ultimi quindici anni, è in via di disgregazione.
Così come, con altre modalità, accade in Sicilia, nella Palermo delusa e ferita. Ma è proprio in questo spazio, quasi una «terra di nessuno», che scorrazzano i nuovi interpreti del dibattito pubblico: dall’onesto Pizzarotti, l’uomo che parla il linguaggio del buon senso, al redivivo Leoluca Orlando, forte di un rapporto peculiare e solido con la sua città.
«Il voto è stato uno schiaffo ai partiti» dice il neosindaco di Palermo, con accenti analoghi a quelli di Grillo. Come dargli torto? E infatti i partiti – tutti i partiti tradizionali – devono stare molto attenti a quello che faranno da oggi alla scadenza della legislatura.

Per quanto li riguarda, l’unico modo per commentare con serietà il dato uscito dalle urne dovrebbe essere l’ammissione che nessuno ha realmente vinto. E che ora comincia una nuova pagina della storia repubblicana. All’insegna, da un lato, della responsabilità nelle scelte di governo, perché l’esecutivo Monti non ha alternative, nonostante errori e incertezze, almeno fin quando la minaccia greca incomberà sulle nostre teste. Ma dall’altro lato nel solco di una corsa riformatrice senza respiro.
Essere seri vuol dire, da subito, lasciar da parte le fumose promesse retoriche e concentrarsi su alcune cose chiare e precise che si possono fare nel giro di due o tre mesi. O magari di due o tre settimane.
La legge anti-corruzione, senz’altro. Ma anche la riforma elettorale, che invece temiamo non si farà. E una riforma radicale, autentica e non furbesca del finanziamento pubblico ai partiti.

Rivolgendosi al tempo stesso all’opinione pubblica con linguaggio semplice per dire: vorremmo cambiare la Costituzione e tagliare del 30 per cento i parlamentari, ma ormai non riusciremo a farlo in questa legislatura per i troppi ritardi che abbiamo colpevolmente accumulato; prendiamo tutti insieme l’impegno a presentare la relativa legge costituzionale (che richiede quattro letture alle Camere) il primo giorno della nuova legislatura, così da votarla tutti insieme.
Non basterà, ma sarebbe qualcosa. C’è in giro questa capacità di cogliere il segnale drammatico che arriva da Parma, da Palermo, ma in fondo da tante altre città, Genova compresa? È lecito dubitarne. L’offerta politica va rinnovata dalle fondamenta, nelle proposte e negli uomini. Ma questo può accadere se si riconosce che il voto amministrativo è lo spartiacque che si è detto all’inizio.

C’è un prima e c’è un dopo e non capirlo può essere molto insidioso. Per chiunque. Per la destra di Alfano, senza il minimo dubbio. Per il centro di Casini che deve uscire dai tatticismi, idem. Ma il centrosinistra di Bersani s’illude se pensa di essere immune dalla tempesta.
Nel ’93 le sinistre vinsero le amministrative e un anno dopo consegnarono l’Italia a Berlusconi. Si dirà che la storia non si ripete, nonostante il luogo comune, e che un nuovo Berlusconi non c’è all’orizzonte. Ma la miscela inedita di astensionismo, frustrazione indotta dalla crisi economica, paura del futuro, scelte anti-sistema (non dimentichiamo che Grillo è contro l’Europa e fautore, almeno a parole, dell’uscita dell’Italia dalla moneta unica), non dimentichiamo che tutto questo rappresenta una bomba pronta a esplodere sotto le gambe di un assetto politico corroso e indebolito.
Nessuna formula di governo fondato su vecchi paradigmi e su abusati personaggi, tranne forse una convinta e dichiarata unità nazionale, sembra in grado di rispondere alla sfida con qualche successo. Perciò è tempo di muoversi. Anzi, è ora di svegliarsi: la società politica e anche la società civile.

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