Il solco tra il dire e il fare

03 Set 2010

Fare il ministro della Pubblica Istruzione, oggi in Italia, è uno dei mestieri più difficili e, nello stesso tempo, più determinanti per il nostro Paese. Si è destinati a guidare una struttura elefantiaca, dove convivono eccellenze professionali sorprendenti assieme a sacche di inefficienze, mediocrità, menefreghismo irriducibili. Un mondo, quello della scuola, condizionato da un sindacalismo corporativo che, associato al clientelismo politico, ha costruito nei decenni uno pseudowelfare assistenziale responsabile di illusioni e di strumentalizzazione per migliaia di giovani, vittime di un precariato quasi perenne. D’altra parte, a quel ministro è affidata una missione assai impegnativa: garantire il futuro occupazionale ai nostri figli, farne dei cittadini consapevoli del nostro Stato e selezionare la classe dirigente dei prossimi anni.

Il compito, già molto arduo, è stato reso, per l’attuale ministro del governo Berlusconi, ancor più difficile dalle ristrettezze del bilancio pubblico, sul quale l’occhiuta vigilanza del collega Tremonti non permette eccezioni.

Mariastella Gelmini, come ha ribadito nella conferenza stampa di presentazione del nuovo anno scolastico, ha scelto, in queste condizioni, una strategia sostanzialmente mediatica, affidata a una serie di annunci-intenzione, fondati su un messaggio semplice ma efficace: occorre ripristinare, nelle aule italiane, un clima di serietà e di rigore meritocratico. Sia nei confronti degli studenti, sia nei riguardi del corpo insegnante.

L’immagine di durezza, di intransigenza che la Gelmini ha diffuso in questi anni di guida al ministero di viale Trastevere è stata persino volutamente inasprita dai due principali nuovi suoi annunci, quello sulla bocciatura di chi colleziona più di 50 giorni di assenza e quello sulla chiusura a qualsiasi trattativa per l’assunzione dei precari. E’ evidente la sua volontà di farsi sostenere dalla maggioranza dell’opinione pubblica, favorevole a un ritorno della severità negli studi, per sconfiggere le resistenze della burocrazia e, soprattutto, dei sindacati scolastici.

Le strategie dei politici, come quelle degli amministratori delle aziende, un paragone che non dovrebbe dispiacere al ministro Gelmini, si giudicano, però, non dalle intenzioni, ma dai risultati. Soprattutto dal confronto non dal mondo come dovrebbe essere, ma da quello che realmente esiste. Nell’attuale situazione della scuola italiana, il rischio della sua strategia è evidente: l’esasperazione, quasi provocatoria, delle diagnosi e delle terapie sui mali dell’istruzione pubblica, in molti casi fondate, potrebbero portare a tali reazioni da suscitare effetti opposti a quelli che si vorrebbero suscitare. La Gelmini si potrebbe trovare davanti a un vero «muro di gomma», fatto di pervicace boicottaggio e di resistenza passiva di chi dovrebbe attuare quelle direttive, tale da vanificare qualsiasi volontà riformatrice.

Il sistema della scuola italiana è molto più complicato di quanto la Gelmini faccia finta di credere ed è difficile si possa smuovere senza la collaborazione e il consenso della grande maggioranza di coloro che ne fanno parte. E’ vero che il ministro deve disinnescare una «bomba precari», la cui miccia è stata accesa da predecessori irresponsabili e da gravi complicità sindacal-politiche, ma non può ignorare la condizione drammatica di tanti giovani ed ex giovani destinati a una sicura disoccupazione. Con l’aggravante di accuse generalizzate e ingiuste sulla loro militanza politica. Prima di tutto assolutamente presunta e, poi, eventualmente, del tutto legittima in un Paese democratico.

Così come è evidente che bisogna frequentare con costanza l’aula scolastica. Ma le eccezioni alla regola dei 50 giorni di assenza, peraltro già ammesse dal suo ministero, rendono abbastanza irrilevante un annuncio la cui concreta attuazione si affida al solito buon senso del collegio degli insegnanti. Siamo tutti d’accordo, naturalmente, sulla meritocrazia, come condizione essenziale per una selezione che non sia fondata sull’iniziale livello della condizione sociale degli alunni. Ma il confine con il darwinismo scolastico si misura su una condizione essenziale: che al mondo dell’istruzione siano concesse maggiori risorse di quelle che, finora, sono state riservate a questo settore.

Ed è del tutto inutile parlare continuamente di quanto sia importante l’investimento sul futuro dei nostri giovani, sulla formazione e sulla ricerca, se poi, a questi buoni propositi, non seguono stanziamenti adeguati. Purtroppo, il confronto con i maggiori Paesi del mondo, in questo campo, boccia l’Italia, anche quella che, nelle nostre aule, non fa più di 50 giorni di assenza.

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