Caro elettore ti scrivo: la campagna elettorale americana via email

Decine di email ogni giorno dai comitati elettorali, dai candidati, dagli eletti e dagli sconfitti per raccogliere fondi e consensi: le caselle elettroniche degli americani sono piene di posta ammiccante carica di promesse. Impossibili da restituire al mittente.

L’anno scorso durante un’intervista sul suo ultimo libro, The Undertow: Scenes from a Slow Civil War (2023), nel quale aveva messo a confronto le tre campagne di Donald Trump sottolineandone la deriva sempre più fascista, il giornalista e scrittore Jeff Sharlet disse che essere iscritti alla mailing list di Donald Trump è come trovarsi all’Hotel California. Proprio quello della iconica canzone degli Eagles, i cui versi finali recitano «potrai fare il check out tutte le volte che vuoi, ma non potrai mai andartene». Provare per credere.

Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 2020, mentre mi trovavo a Des Moines in Iowa per seguire le primarie democratiche, scrissi all’ufficio stampa della campagna di Donald Trump per chiedere un accredito per l’evento che il presidente avrebbe tenuto in un palazzo dello sport della città. L’accredito non mi fu concesso e così mi rassegnai a farmi  circa tre ore di coda con i maga, dopo un accurato controllo che sulla mia giacca a vento non ci fosse nemmeno una spilletta di Bernie Sanders. In compenso rimasi intrappolata nell’Hotel California della sua mailing list. 

Ricevendone decine e decine alla settimana, con picchi che hanno toccato oltre trenta mail al giorno, e non solo in periodi particolarmente significativi come le campagne elettorali o come il lunghissimo periodo in cui, non rassegnandosi alla sconfitta contro Biden, ogni giorno minacciava i vari governatori e segretari di stato che riteneva colpevoli delle presunte frodi ai suoi danni, ho tentato più volte di disiscrivermi da quella newsletter. Sebbene, come in tutti i siti, l’opzione sia prevista, e sebbene, come in molti siti, la riuscita dell’operazione non sia immediata ma richieda una certa costanza, con Donald Trump non c’è stato verso. Se, a seconda degli anni e delle varie situazioni in cui si trovava  sono cambiate le intestazioni delle sue lettere – «45° President Of The United States of America Donald J.Trump», «Make America Great Again», «Trump-Vance», «The Office of Communications» – la possibilità di cambiare idea sulla ricezione delle sue comunicazioni non è stata mai contemplata. 

D’altra parte anche in campo democratico con le email non si scherza. Dal momento in cui si finisce in un determinato circuito, a causa della condivisione dei contatti da parte dello staff di qualche personaggio politico o di qualche organizzazione a cui ci si è volontariamente iscritti, è possibile che si comincino a ricevere comunicazioni anche da parte di mittenti di cui non si è chiesta la sottoscrizione. Se da una parte ciò può risultare irritante, soprattutto se la propria casella postale viene inondata di email, dall’altra ci sono anche casi in cui tale circostanza può risultare interessante e utile, al punto da decidere di non tentare nemmeno la disiscrizione. 

È precisamente questo il caso che mi riguarda, soprattutto da quando, durante la corsa presidenziale del 2024 e specialmente dal momento della rinuncia di Joe Biden a favore della sua vice Kamala Harris, sono divenuta destinataria di una cospicua dose di email dell’establishment democratico, provenienti sia dagli uffici stampa personali di Biden, Harris e Harris-Walz, sia da quelli del Comitato Nazionale Democratico (DNC) nelle persone del suo presidente Ken Martin e di altre figure del gotha del partito, Barack Obama in primis. Conseguenza naturale delle mie ripetute iscrizioni al DNC per la precauzionale rassicurazione di ricevere informazioni sulle Convention Democratiche Nazionali per le nomine presidenziali, la ricezione di quelle email e la loro lettura, seppure parziale, mi ha offerto e continua a offrirmi l’opportunità di confronti molto interessanti, ad esempio sul modo in cui gli stessi argomenti vengono affrontati in maniera diversa dalle due anime del partito, se non addirittura ignorati da una delle due. Da una parte l’establishment, il cui punto di riferimento è appunto il DNC, dall’altra i progressisti che hanno come punto di riferimento l’indipendente Bernie Sanders, ad esempio deputati come Alexandria Ocasio Cortez, Ilhan Omar, Ro Khanna, Rashida Tlaib, ed altri ancora che, nel mio caso specifico, sono persone delle quali ho scelto di ricevere comunicazioni costanti. Senza riportare esempi tipici dei messaggi inviati da questi ultimi,  che quasi sempre consistono in lunghe email ben documentate e dettagliate riguardo sia i temi sociali ed economici affrontati, sia le modalità concrete da attuare per conseguire obiettivi specifici, ad esempio la lotta contro le prevaricazioni di Trump, ci focalizziamo su tre esempi scelti tra le tantissime comunicazioni provenienti dall’establishment democratico.

Riportarne la traduzione può essere utile in quanto esemplificativo del contenuto sostanziale del messaggio unico inviato sia prima sia dopo le elezioni del 2024 da parte dall’establishment democratico. Prima delle elezioni per ispirare gli elettori a votare per Kamala invece che per Trump, dopo le elezioni per ispirare gli elettori a votare per lo stesso identico partito che le elezioni le ha perse. 

I primi due esempi si collegano direttamente, per dimensione temporale, ai due articoli per Libertà e Giustizia inviati nelle scorse settimane da New York su quello che oggi si configura come il primo round della sfida Zohran Mamdani – Andrew Cuomo per la carica di sindaco di New York. A due settimane esatte dal secondo di quegli articoli – uno dei cui temi era la denuncia del silenzio dell’establishment per la vittoria di Mamdani nonostante fosse diventato nel giro di una notte una superstar internazionale – una variazione consistente è stata l’annuncio che Andrew Cuomo ha fatto il 14 luglio, ossia che correrà come indipendente alle elezioni generali di novembre. 

A dispetto delle parecchie email ricevute dall’apparato democratico, nemmeno questa notizia è servita a modificare quel silenzio su Mamdani già denunciato due settimane fa, rotto solo da coloro che ne avevano parlato ambiguamente in termini che alludevano all’antisemitismo. Un silenzio che risulta ormai sempre più rumoroso, dal momento che ignorare Mamdani come se neanche esistesse, soprattutto dopo la ricandidatura di Cuomo che da democratico non ha accettato il risultato delle primarie del suo partito, mette in discussione il partito stesso in merito alla scelta popolare in un processo elettorale come quello delle primarie che rappresenta uno dei capisaldi della democrazia americana. Inoltre palesa ulteriormente ciò che Bernie Sanders aveva evidenziato fin dalla sua prima campagna presidenziale nel 2015, e che continua a evidenziare nel suo Fighting Oligarchy Tour, ossia il totale distacco del Partito Democratico da quella che dovrebbe essere la sua base, composta dalla vasta gamma delle classi lavoratrici dalle quali si è allontanato in maniera sempre più drammatica per assecondare sempre di più il volere dei suoi potenti finanziatori. Un partito che, pur di non rischiare una presidenza Sanders, si è reso responsabile sia delle due elezioni di Trump nel 2016 e 2024, sia quella di Biden nel 2020, quando molti segni già lasciavano presagire quella decadenza cognitiva che inevitabilmente si sarebbe conclamata sempre più. Oggi come oggi a New York, e per estensione in tutta la nazione, continua a valere, seppure col nome Zohran invece che Bernie,  il concetto espresso in tanti cartelli dei manifestanti pro-Sanders nei giorni della Convention Democratica Nazionale del luglio 2016 a Filadelfia: «Il Partito Democratico ha più paura di Bernie che di Trump». 

Ebbene, mentre a New York si consumava quello scontro Mamdani-Cuomo che è stato definito da diversi giornalisti come un referendum sulle due anime del partito, il DNC, Kamala Harris e Barack Obama erano impegnati a propagandare il concorso «Barack Obama wants to meet you. Yes you», che nella versione delle email spedite da Obama era, nel mio caso specifico, «I’d love to meet you, Elisabetta».

Ecco la traduzione di uno dei messaggi di Obama datato 30 giugno 2025, sei giorni dopo la vittoria di Mamdani, che Obama ha totalmente ignorato sia prima sia dopo le primarie: 

«Elisabetta, sono emozionato nel condividere la notizia che verso la fine dell’estate, incontrerò una sostenitrice come te e ti ringrazierò personalmente per il lavoro che stai facendo.
Puoi usare questo link per dare un contributo ed entrare nel concorso.
Oggi come oggi, con tutto quello che sta succedendo, sarebbe facile lasciarsi andare alla disperazione, ma le persone come te non lo faranno. Continueranno a partecipare alle riunioni cittadine, a chiedere conto ai propri rappresentanti e forse persino a decidere di candidarsi personalmente. Sono emozionato all’idea di incontrarti di persona.»

Quest’altro è invece il succo di un messaggio  inviato dal DNC, dal quale abbiamo eliminato solo i convenevoli di apertura,: 

«Qui al DNC, investiamo un milione di dollari al mese in ogni Partito Democratico statale. Portiamo Trump in giudizio per proteggere gli elettori e la nostra democrazia. Ci stiamo organizzando ovunque, negli stati rossi, blu e viola. Così quando vedi i Democratici lottare nelle tua comunità e altrove, sappi che il tuo sostegno ci garantisce le risorse per poterlo fare. E oggi, la tua donazione ti permette anche di entrare nel concorso per incontrare Obama.»

Sembra di essere finiti in The Truman Show.

Facendo un salto a prima delle elezioni concludiamo riportando quasi per intero un’email che proviene dal quartier generale di Kamala Harris. Ci pare particolarmente emblematico non solo di quel messaggio unico impostato da Kamala, dai suoi consulenti e dal Partito per la campagna  presidenziale, ma anche e soprattutto del motivo per cui Kamala ha perso una battaglia che sarebbe stato facile vincere se si fosse ricorso, invece che alla banalità di annunci retorici privi di contenuto, a temi concreti che riguardano la vita della grande maggioranza degli americani,  e contestualmente se si fosse scelto di richiedere il sostegno di personaggi politici che, invece di  riverire corporation e miliardari, tengono davvero alla sorte delle persone in  rappresentanza delle quali sono stai eletti. Questa email è del 2 agosto 2024.

«Guarda qui:

Barack e Michelle Obama sostengono Kamala Harris.
Joe e Jill Biden sostengono Kamala Harris.
Bill e Hillary Clinton sostengono Kamala Harris.
Chuck Schumer sostiene Kamala Harris.
Hakeem Jeffries sostiene Kamala Harris.
Nancy Pelosi sostiene Kamala Harris.

Centinaia di leader del Democratic Party sono d’accordo: la storia personale e la visione di Kamala la rendono la candidata perfetta per continuare la lotta contro Donald Trump, vincere in novembre, e guidare l’America nel futuro.
Questi endorsement danno un segnale forte.
Ma non riusciremo a raggiungere gli elettori indecisi con il nostro messaggio senza l’aiuto di sostenitori di base come te. 

Se sei d’accordo con Barack e Michelle Obama e con così tanti altri, allora clicca il link qui sotto per versare subito 25 dollari per eleggere Kamala Harris come nostro nuovo presidente».

Se ci fosse stato anche il nome di Andrew Cuomo il «Kamala Headquarter» avrebbe fatto l’en plein!

Elisabetta Raimondi, già professoressa di inglese e drammaturga, ha iniziato a seguire per Vorrei.org la campagna di Bernie Sanders nel 2016.
Collabora, con Jacobin Italia.

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