Sotto la pressione del capitalismo neoliberale occidentale si sta rafforzando una tendenza reazionaria e nazionalista che sostituisce le guerre alla diplomazia come strumento per la regolazione dei conflitti; che promuove il controllo militare e poliziesco dello spazio pubblico; che approva ordinamenti giuridici segregazionisti finalizzati al controllo delle migrazioni; che attua delle pratiche sociali e urbanistiche di matrice neoliberista. Questo ci fa pensare ad un futuro che sarà sempre più selettivo, perché basato su politiche e azioni che non consentiranno a tutti di beneficiare dei prodigi della tecnica, delle opportunità localizzative migliori, dell’accesso alle risorse essenziali e rare per la vita (acqua, aria, suolo, cibo, salute). Negli ultimi tempi si è aperto un intenso dibattito intorno a quei caratteri autoritari che si manifestano nell’ambito degli assetti democratici. Neologismi come democrazia autoritaria, fascismo democratico, neoliberismo autoritario evidenziano chiaramente queste dinamiche.
Soffermandoci sull’Europa, l’avanzata dei partiti populisti di estrema destra mostra con chiarezza una tendenza a limitare parte degli anticorpi democratici, quali ad esempio il controllo della magistratura, la sottomissione dei mass-media, l’indebolimento dei sindacati e dei cosiddetti corpi intermedi, a cui si affianca una strategia politica chiaramente esclusiva e discriminatoria diretta alle minoranze etniche e alle differenze in generale viste quali minaccia morale e materiale all’ordine nazionale. Inoltre, è altrettanto evidente come l’attuale regime neoliberista si muova attraverso un rafforzamento degli apparati coercitivi e di sicurezza dello Stato al fine di sostenere il sistema di accumulazione nonostante la sua evidente incapacità di realizzare qualsiasi forma di prosperità economica condivisa.
Come aveva a suo tempo sottolineato Carlo Galli, in maniera esemplare, nel suo libro Il disagio della democrazia1, nell’epoca della globalizzazione il trionfo ideologico del capitalismo si presenta come forza autonoma dalla politica, dallo Stato e dall’individuo. Ne consegue, sempre seguendo le intuizioni di Galli, che “la logica capitalistica presuppone mano libera rispetto alla politica e al diritto e rifiuta come costi insopportabili le conquiste dello stato sociale” il cui esito è lo spostamento radicale del PIL verso rendite e profitti a scapito dei salari. Su questa linea di pensiero, Luciano Gallino, in un illuminate testo come Il colpo di stato di banche e governi2, ha mostrato con accuratezza quanto la crisi finanziaria del 2008 abbia comportato un attacco diretto contro le istituzioni democratiche svuotandole delle loro prerogative. Infatti, il sistema creditizio e finanziario nella sua ipocrita missione ha da sempre internalizzato i profitti ed esternalizzato le perdite e i suoi fallimenti. In questa dinamica i governi occidentali sono stati ampiamente complici nel consegnare parti sempre più significative di sovranità democratica al neoliberismo.
Il panorama autoritario che si definisce e ridefinisce nel gioco democratico assume i contorni di una presunta necessità storica a cui non vi sono alternative e che prefigura l’azione diretta a cambiare le regole e le stesse istituzioni a favore di una ristretta élite politico-economica. In tal senso, l’egemonia di questo modello sociale diviene un fattore che riduce la partecipazione dei cittadini e gli spazi di democrazia considerati quali ostacoli alla «necessaria e ineludibile crescita» e legittima l’unica soluzione possibile per uscire dalla crisi, ovvero il mercato e il profitto.
Non è certo un caso che il prevalere della finanziarizzazione abbia generato la bolla immobiliare da cui si è espansa la citata crisi a livello mondiale, così come non è casuale che la forza dei fondi immobiliari globali sia diventata uno degli strumenti più potenti di creazione di valore e profitti. Infatti, l’accentuata competitività economica tra le aree metropolitane ha rafforzato l’idea che attrarre capitali e investitori per la rigenerazione urbana rappresenti l’unico strumento possibile e immaginabile per agevolare il progresso e creare ricchezza. Tutto ciò a scapito delle popolazioni meno abbienti progressivamente escluse spazialmente, politicamente, socialmente ed economicamente. S’impone, quindi, in scala urbana, ciò che a suo tempo aveva intuito Henry Lefebvre ovvero la preminenza della logica del valore di scambio sul valore d’uso o, detto in altri termini, il prevalere della dimensione economica legata alla ristretta cerchia di affaristi sulla vita sociale degli abitanti e il loro diritto alla città.
A partire da questa sintetica premessa, riteniamo fondamentale definire il citato termine città autoritaria come l’insieme di ideologie, discorsi, pratiche e politiche sulla città orientato a generare profitto e rendita, a ridurre i diritti alla città degli abitanti, a marginalizzare ed escludere i gruppi più vulnerabili. Una definizione che sottolinea implicitamente il ridursi delle istanze di giustizia socio-spaziale e di giustizia climatica quale esito e interazioni di queste dinamiche.
Dal punto di vista analitico, riteniamo i seguenti criteri necessari e utili per individuare il crescente autoritarismo nelle politiche urbane:
- egemonia delle rendite immobiliari e rigenerazione urbana diretta alle classi più ricche (gentrificazione);
- privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio pubblico;
- dinamiche di segregazione socioeconomica ed etnica dei gruppi vulnerabili (ghetto o favelas) e di auto-segregazione dell’élite (comunità chiuse);
- militarizzazione dello spazio pubblico e controllo eccessivo del comportamento dei gruppi marginali;
- deficit di partecipazione/coinvolgimento nelle decisioni pubbliche sulla città dei gruppi marginali;
- sostenibilità come strumento di esclusione (eco-gentrificazione) o processo di green-washing;
- processi di turistificazione.
I caratteri appena individuati sono un primo passo per ampliare la discussione e porre al centro il problema che riteniamo di fondamentale importanza.
Il nostro è un tentativo e un’urgenza: tentativo poiché sintetizzare efficacemente la vasta riflessione sul tema non è semplice e anche perché siamo coscienti che ciò che abbiamo individuato quali criteri della città autoritaria possono essere limitati o, viceversa, non ritenuti sufficientemente efficaci; urgenza perché siamo convinti, lo ripetiamo, al di là della nostra analisi che la situazione si sta aggravando e che le contromisure diventino complicate da costruire nell’immediato futuro.
A partire da questa proposta di analisi e di ricerca riteniamo decisive ulteriori riflessioni.
Per quanto riguarda il futuro urbano molti media occidentali alimentano spesso un atteggiamento urbano neo-fondativo dove ciò che non emerge è la volontà di affrontare i problemi urbani reali causati da un inarrestabile processo di urbanizzazione globale. Si mostra il “bello” di un nuovo dispositivo urbano (es. Dubai o Neom Line) ma non le condizioni che lo generano (ricchezze accumulate con la vendita del petrolio, sfruttamento delle risorse naturali, miseria urbana, sfruttamento dei migranti, eliminazione degli oppositori, ecc.). Tali visioni urbane con le relative architetture, ci parlano di mondi efficienti e ordinati gestiti da algoritmi e da dispositivi politici di controllo del conflitto. Le macchine e l’automazione rendono quasi inutile la presenza dell’uomo, se non nella sua funzione di consumatore. A metà degli anni Sessanta, Herbert Marcuse affronta il tema dell’uomo “unidimensionale” nella società industriale avanzata e afferma che “La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate”.
Il capitalismo con i suoi apparati produttivi assume quindi comportamenti totalitari che si riverberano non solo sul lavoro ma anche sugli atteggiamenti socialmente richiesti e sui bisogni e le aspirazioni individuali: dunque una tendenza totalitaria che non rende neutrale la tecnologia. I suoi presupposti si fondano, lo ribadiamo, sulla prevalenza dell’interesse privato a detrimento del bene collettivo, sul dominio del denaro e della rendita finanziaria in contrasto con l’idea di uno stato regolatore delle politiche economiche, urbane e sociali. A tale riguardo, la città eco-tecnologica neoliberista è divenuta un modello riproposto ovunque nel mondo che associa diverse categorie che la identificano e che prefigurano il modello di eco-gentrificazione, ovvero una soluzione non per tutti ma solo per una minoranza elitaria lasciando il resto fuori dalla cittadella assediata. Ne deriva che siamo al paradosso che si avviano progettualità e interventi nella direzione giusta della sostenibilità ma i cui esiti alimentano ancora di più la disuguaglianza: un processo inevitabile poiché non sono rimesse in discussione le fondamenta di un modello ultraliberista che governa autoritariamente le aree urbane e che anzi sempre più la differenziazione tra aree privilegiate e aree deprivate.
Un ultimo aspetto problematico riguarda la reiterata enfasi sulla governance intesa come dimensione di potere orizzontale e, in certi casi, sulla partecipazione della cittadinanza a determinati processi decisionali; partecipazione che risulta nella stragrande maggioranza dei casi una retorica priva di qualsiasi aspetto di reale democratizzazione o decentramento di potere.
Le amministrazioni assumono, in alcuni casi, i contorni di soggetti politici deboli, non in grado di opporre qualche forma di resistenza all’impeto del valore economico rispetto al valore sociale delle questioni urbane emergenti. Per quanto siano diffusi i movimenti a livello planetario e siano organizzate le lotte dei gruppi esclusi contro il pensiero unico economicista dello sviluppo urbano e, infine, per quanto si siano registrate costituzioni urbane incentrate sul diritto alla città gli effetti non sembrano invertire la rotta o, almeno, raffigurare potenzialmente una seria e valida alternativa.
Qui non vogliamo suggerire una sorta di rassegnazione all’inevitabile destino. Assolutamente, anzi.
Innanzitutto, vi sono esempi di “ribellione” allo stato delle cose che hanno portato degli effetti importanti per il mutamento delle politiche di esclusione a livello locale; in seconda battuta, le diffuse lotte ambientali raffigurano un vettore decisivo nell’inversione di tendenza delle logiche fondiarie e della messa in discussione delle condizioni dell’attuale sviluppo urbano autoritario. Nondimeno, riteniamo che la consapevolezza delle competenze della cittadinanza, espressa in varie forme, spinga ad agire e a organizzarsi per far fronte alle scelte univoche e unilaterali delle politiche urbane autoritarie. Questo è un punto di discussione fondamentale sul quale sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro al fine di creare le basi per una reale partecipazione e innovare le pratiche democratiche. Contrastare la realtà delle città autoritarie non può prescindere da tale dimensione “politica” all’interno del prevalere della dimensione privata e privatistica rispetto alla dimensione collettiva e pubblica nel suo significato più ampio. In tale prospettiva, le esperienze diffuse di partecipazione e di coinvolgimento diretto raffigurano un orizzonte di senso che può essere tradotto in pratiche quotidiane di riappropriazione della città con l’obiettivo di connettere le distinte progettualità e i loro risultati per rafforzare ed allargare l’azione contro l’egemone modello autoritario. A partire da questa potenzialità, il richiamo alla città delle donne, alla città femminista con la sua dialettica positiva con la città della cura, o “città che cura”, risulta un fattore fondamentale di contrasto e di futuro possibile poiché riteniamo che la natura della città autoritaria sia essenzialmente maschilista e patriarcale.
La scala urbana è ridiventata nella contemporaneità uno spazio conflittuale sempre più determinante per definire e ridefinire i diritti di cittadinanza nella loro pluralità e nella loro articolazione sociale. Non è certo un caso che la città autoritaria si coniughi con la restrizione dei diritti attraverso la finta neutralità dei meccanismi di mercato. Il ritorno assai rilevante al citato diritto alla città è un segnale significativo che va nella direzione di una volontà di “emancipazione e liberazione” dall’autoritarismo che connota la politica urbana. Qui ritroviamo l’idea della gratuità degli spazi pubblici, di una riappropriazione della città nel suo immanente carattere di socialità e di incontro tra le diverse appartenenze che contrasta con la progressiva privatizzazione e mercantilizzazione di essi il cui rischio è di consolidare il deficit di democrazia e di produrre soggettività passive e sempre più escluse. Infine, parlando di “città autoritaria” forse è arrivato il momento di aprire il dibattito su quel terzo della popolazione mondiale che vive in insediamenti informali, i cui bisogni quasi mai si trasformano in diritti e in servizi, e che non è certo la componente dell’umanità responsabile della mutazione climatica in corso.