Domenico Gallo, autore di questo articolo, è membro del Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia, già magistrato e presidente di Sezione emerito Corte di Cassazione.
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Lo sconcerto sollevato dalla divulgazione di passi e di tesi sostenute nel libro del gen. Vannacci ha dato la stura ad un vespaio di polemiche, a cagione del ruolo rivestito dall’autore nelle Forze Armate, ma ha fatto venire allo scoperto i simpatizzanti delle idee del generale che hanno alzato l’usbergo del principio costituzionale della libertà di espressione del pensiero incardinato nell’art. 21. Se la destra si è schierata compatta, da Salvini ad Alemanno, a difendere la “libertà di espressione” del generale, dubbi ed incertezze sono stati sollevati da più parti. Nel caso specifico la questione è complicata dal fatto che si tratta di un ufficiale delle Forze Armate a cui si applica il principio del dovere di fedeltà, normato dall’art. 54, II comma, della Costituzione, che prevede che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Prescindendo da quest’ulteriore profilo, è il tema della libertà di espressione che deve essere scandagliato per inquadrarne i confini, nel quadro della Costituzione e degli atti di rilievo internazionale. E’ bene precisare che i discorsi di odio, di supremazia razziale, di discriminazione etnica, nazionale o religiosa, i c.d. “hate speeches” si pongono al di fuori dei confini della libertà di espressione per ragioni consustanziali ai valori di una società democratica, che esigono il rispetto della dignità umana dei singoli e dei gruppi sociali. Bisogna partire dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966. La Convenzione ONU è stata emanata: “Considerando che lo Statuto delle Nazioni Unite è basato sui principi della dignità e dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani, e che tutti gli Stati membri si sono impegnati ad agire (..) per sviluppare ed incoraggiare il rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”. Per questo tutti gli Stati contraenti si sono dichiarati: “Risoluti ad adottare tutte le misure necessarie alla rapida eliminazione di ogni forma e di ogni manifestazione di discriminazione razziale nonché a prevenire ed a combattere le dottrine e le pratiche razziali allo scopo di favorire il buon accordo tra le razze ed a costruire una comunità internazionale libera da ogni forma di segregazione e di discriminazione razziale”.
In base all’art. 4 della Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano: “ a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti”.
L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge 13 ottobre 1975 n. 654, ma non ha dato seguito all’obbligo di punire gli “hate speeches”. C’è voluta la legge Mancino del 1993 (D.L. 26 aprile 1993, n. 122, conv. nella L.205/93) per dare attuazione all’art. 4 della Convenzione ONU. La legge Mancino innestò nella legge di ratifica questa norma: “salvo che il fatto costituisca più grave reato (.) è punito a con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali etnici nazionali o religiosi”.
La disposizione fu applicata nei Tribunali senza che venissero sollevati dai giudici dubbi di costituzionalità. A farne le spese è stato il leghista Mario Borghezio, all’epoca dei fatti deputato europeo. La Cassazione lo ha condannato per il reato di cui all’art. 3 della Legge 654/75, come modificata dalla legge Mancino, con la sentenza n.32862 del 5 maggio 2019, nella quale ha disposto il rinvio degli atti alla Corte d’appello di Milano al solo fine di determinare la pena. Borghezio è stato incriminato del reato di diffusione di idee fondate sull’odio razziale per le espressioni rese nel corso di un’intervista radiofonica resa nell’ambito della trasmissione “La zanzara” di Radio 24, andata in onda l’8 aprile 2013. Nel corso della trasmissione Borghezio aveva pesantemente insultato una delegazione di Rom e Sinti ricevuta dal Presidente della Camera con invettive espressive di “un esplicito disprezzo razziale”.
Nella motivazione della sentenza Borghezio, la Cassazione richiama l’orientamento consolidato della Corte Europea dei Diritti dell’uomo in materia di libertà di espressione e discorsi d’odio. “ In estrema sintesi – argomenta la Cassazione – può affermarsi che la Corte EDU esclude il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica quando si tratti della promozione di valori coessenziali alla tutela dei diritti dell’uomo, soprattutto in presenza della loro minaccia o restrizione, ritenendo, invece, legittima e necessaria l’ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d’odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà.”
È curioso che, una volta che in Italia sono stati avviati numerosi procedimenti penali per violazione della legge Mancino, la norma è stata cambiata. Il nuovo art. 604 bis del codice penale (introdotto dal Governo Gentiloni) ha notevolmente mitigato la pena prevista originariamente dall’art. 3 della L. 654/75, dimezzando la pena della reclusione e prevedendo la possibilità di irrogare una pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva.
È rimasto comunque fermo il principio dell’illiceità penale dei discorsi di odio, che esulano dai confini della libertà di espressione del pensiero.
Il razzismo è un delitto, non è un’opinione.