Il “caso Palamara” continua a emanare miasmi pestilenziali sulla credibilità della magistratura tutta. Per chiunque abbia a cuore lo stato di salute di questa struttura portante della democrazia, la necessità e l’urgenza di buone e radicali riforme – a partire dal Csm – è di indiscutibile evidenza. Come lo è il groviglio che occorre assolutamente sciogliere: le “correnti” in quanto meccanismi clientelari che praticano (o passivamente accettano) un sistema di conferimento degli incarichi direttivi subordinato allo sciagurato criterio della “appartenenza”.
Nefandezze e magagne si annidano principalmente su due versanti: le modalità di elezione dei componenti del Csm e le procedure per la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari. Nel primo caso, posto che i componenti del Csm debbono essere eletti (articolo 104 della Costituzione), si tratta di arrivare all’elezione innalzando un qualche robusto argine all’invadente strapotere delle correnti.
Per esempio, facendo sì che l’elezione avvenga su “rose” di candidati formate nelle singole circoscrizioni mediante il voto espresso da tutti i magistrati dell’area (non solo ordinari, ma pure onorari), da tutto il personale amministrativo e da una congrua rappresentanza dell’Avvocatura. In questo modo le correnti non spariranno di certo come per incanto, ma la loro incidenza sarebbe senz’altro assai ridotta.
Sia perché la platea dei votanti è molto più ampia, sia perché essa è formata in maggioranza da addetti ai lavori non coinvolgibili nel “gioco” delle correnti come possono essere i magistrati ordinari. Inoltre – e soprattutto – il voto sarebbe espresso da soggetti che conoscono bene pregi e difetti dei vari candidati avendoli visti all’opera “sul campo”, vale a dire da soggetti poco influenzabili dalle “argomentazioni” correntizie che prescindono dalle effettive capacità.
Infine, alla formazione della “rosa” potrebbe candidarsi ogni magistrato di quell’area, con possibilità di votare anche chi non si fosse candidato da sé, di modo che la scelta sia svincolata quanto più possibile da ogni “preconfezionamento”. Quanto alla nomina dei dirigenti, condivisibile (e attuabile) è la proposta del presidente della Corte d’appello di Brescia, Claudio Castelli.
Tale nomina richiede la valutazione di specifiche attitudini in base all’analisi non dei soli “titoli”, ma anche di “come” il candidato ha ricoperto questo o quel ruolo e dei risultati conseguiti (in termini di statistiche, indipendenza, organizzazione, coesione dell’ufficio, rapporto col personale ecc.). Senonché, questa valutazione è una scienza che richiede una buona conoscenza di tecniche specialistiche che il Csm non possiede.
Servirebbe allora un organismo consultivo formato da esperti esterni (nelle Università vi sono le giuste competenze), capaci con apposite “istruttorie” di acquisire la documentazione e le informazioni che consentiranno al Csm scelte avvedute (spesso, del resto, nel settore privato l’amministratore delegato viene scelto proprio con la consulenza di società specializzate).
Adottare questo sistema (almeno per gli uffici più importanti) significa automaticamente ridurre di molto i margini dell’arrivismo correntizio, perché alla fin fine le consulenze produrranno atti dai quali non sarà facile prescindere a chi voglia superare il confine dell’arbitrio per favorire il proprio protetto. In sostanza, per porre rimedio all’attuale situazione di default non bastano operazioni di maquillage.
Occorre sperimentare un coraggioso lavoro di bisturi, nella direzione e con gli obiettivi sopra ipotizzati. Altrimenti potrebbe crescere il rischio (enunciato dal presidente Mattarella nel discorso del 18 giugno in memoria di alcuni magistrati uccisi dalla mafia e dal terrorismo) “che alcuni attacchi alla magistratura nella sua interezza siano in realtà volti a porre in discussione l’irrinunciabile indipendenza”.
Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2020