Che il virus non contagi la democrazia

20 Marzo 2020

Vincenzo Vita

In questi giorni di emergenza da Covid-19 si stanno restringendo diversi diritti, a cominciare da quello della libertà di movimento. Del resto, l’emergenza sanitaria è talmente grave (e inedita) da rendere inevitabile la compressione di talune libertà. Tuttavia, ogni limitazione deve essere limitata, transitoria e va aggiunto- saldamente controllata, nel suo perimetro e nella sua invadenza, dalla sfera pubblica.

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La questione diviene particolarmente delicata e per ciò che concerne la circolazione e il trattamento dei dati personali. Il Garante Antonello Soro si è mosso scrupolosamente, fin dallo scorso febbraio, indicando i criteri generali alla Protezione civile. Si tratta di combinare due diritti costituzionali altrettanto cruciali: la salute e la riservatezza. Come può accadere in casi omologhi, in simili situazione è inevitabile scegliere il diritto prevalente. E la vita di un essere umano prevale sempre.

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Tuttavia, il tema della raccolta delle tracce che ognuno di noi lascia in giro, magari senza esserne cosciente, (vedi il caso limite della Corea del Sud in merito alla tracciabilità degli spostamenti) è particolarmente serio. Perché l’identità digitale è parte integrante della cittadinanza e della coscienza. E’ indispensabile, quindi, uscire da una stretta polarità dialettica, che metta in contrasto elementi ugualmente fondamentali per il tessuto civile. Serve una via di congiunzione garantita dalle istituzioni e dalla sfera statuale. Guai ad appaltare i servizi di condivisione dei dati, pur per finalità nobili, ai soliti Over The Top: da Google, ad Amazon, a Facebook in poi.

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Ne ha scritto su il manifesto dello scorso giovedì 12 marzo Michele Mezza e ci ha ragionato sul sito del “Centro per la riforma dello Stato” il direttore di quest’ultimo Giulio De Petra. Ci sentiremmo più tutelati ora e si correggerebbe la disastrosa linea privatistica che ha condizionato le politiche digitali (imposte dalla televisione) negli ultimi venticinque anni, contribuendo al disastro italiano. Diversi commentatori in questo periodo sembrano riscoprire i difetti teorici e pratici degli approcci liberisti, piangendo sull’assenza in numerose zone della banda larga e di una seria rete infrastrutturale aperta e “bene comune”.

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Ne risentono i pur buoni propositi sull’educazione a distanza e sullo smart working, a prescindere dalle sacrosante problematiche pedagogiche e sindacali. E’ il caso di rimettere il naso nelle modeste esperienze delle “Agende digitali” e di coordinare meglio (anzi, coordinare) i differenti centri decisionali, che già hanno fatto spendere cifre meglio utilizzabili per comprare i software proprietari di Microsoft, invece di utilizzare i gratuiti programmi free. Insomma, il dramma è anche l’occasione per cambiare radicalmente rotta, rendendoci indipendenti dagli oligarchi della rete, usi a commerciare i dati con obiettivi meramente commerciali o direttamente politici.

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La repentina discesa dei consensi nelle primarie democratiche degli Stati Uniti di Elizabeth Warren, che ha più volte proposto lo “spezzatino” di Facebook, troppo grande e prepotente per rimanere in mani così ristrette, fa pensare. Così pervasivi i social? Certamente sì. L’economista controcorrente Mariana Mazzucato scrive chiaramente (“Il valore di tutto”, Bari-Roma, Laterza, 2018, p.239) che “…il punto critico è di assicurare che la proprietà e la gestione dei dati rimangano collettivi come la loro origine: il pubblico”. Un’ipotesi. Antonello Soro dispone a normativa vigente di rilevanti funzioni. E se gli fossero conferiti poteri straordinari?

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il manifesto, 18 marzo 2020 

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