Il Venezuela ha accolto sarti, professori e idraulici: ora saccheggiano anche i fiori

31 Gennaio 2019

Sono nata in Venezuela, un posto dove saccheggiano persino i fiori. Sappiamo della morte tanto quanto di noi stessi: siamo cresciuti con la morte attaccata alla pelle. Ci uccidono o ci uccidiamo, seppelliamo e siamo sepolti. In Venezuela, il mio Paese, balliamo e cantiamo ai defunti, facciamo festa e tragedia tutto intorno a loro. Ci ricordano che presto saremo sotto la terra che li accoglie – o espulsi da essa -, mormorano i nostri nomi e intuiscono il destino sotto gli alberi.
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Negli ultimi cinque giorni in Venezuela sono morti almeno 29 venezuelani. Uomini e donne che si sommano alle 400 persone uccise per mano di Nicolás Maduro, l’ uomo al quale Hugo Chávez Frías ha alzato il pugno come gesto di successione. Allora Chávez, come noi, aveva un piede nella fossa e ignorava quanti altri defunti avrebbero concimato il suo giardino di oltraggi. Dal 2014, data in cui Nicolás Maduro ha preso il testimone passato dal tenente colonnello Hugo Chávez Frías, ogni venezuelano ha perso in media undici chili e circa tre milioni di cittadini sono fuggiti lontano, molto lontano, dal luogo al quale appartengono.
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Sono passati cinque anni dal 2014. Il Venezuela continua a essere governato dal regime di Hugo Chávez attraverso il suo successore, ma compie anche quasi vent’ anni di tasso di cambio imposto, la sua economia ha un’ inflazione di oltre un milione per cento e subisce una privazione del cibo e delle medicine superiore al 90 per cento. Le cifre ufficiali delle morti violente per mano della delinquenza non esistono più, perché lo Stato non le fornisce.
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Tuttavia, l’Observatorio Venezolano de la Violencia, organismo indipendente, documenta un rapporto di 73 omicidi al giorno per mano della delinquenza comune e una stima di almeno 350 prigionieri politici nelle carceri venezuelane. Sono passati, sì, cinque anni.
Racchiuso tra la nascita di quel Venezuela e quello che adesso si sta giocando il suo futuro, prende forma il più grande smantellamento civile mai sperimentato da un Paese. È trascorsa quasi una settimana da quando il presidente della Asamblea Nacional, Juan Guaidó, ha denunciato l’ incostituzionalità di un governo che usurpa la volontà dei cittadini con elezioni truccate e prive di garanzie.
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Nicolás Maduro ha tranquillizzato i suoi. Ha detto loro di avere fatto un viaggio nel futuro, dove tutto prometteva pace e democrazia. Sì, ha detto così. Per essere uno che viene dal futuro, non sembra che Nicolás Maduro abbia le idee molto chiare. E anche se fa battute e dispensa risate per dare ragione a se stesso, Maduro non possiede nessuna delle cose che si vanta di avere: ragione, potere, e meno che mai futuro.
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L’ufficio del successore di Hugo Chávez si sta facendo sempre più piccolo. Sembra che i morti del suo regime escano dalle tombe per chiedere la giustizia che non riceviamo noi, i vivi. Sono loro che lo spingono fuori dal Palacio de Miraflores: i fantasmi di coloro che ha fatto morire per gli spari, per le botte o di fame, i modi in cui uccidono i dittatori. L’anima di un Paese che sta morendo bussa alla porta e lui non sa che fare. 
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Per essere uno che viene dal futuro, Maduro ride in modo svogliato e spaventato. La Rivoluzione fallita non ha più niente per nutrire i suoi guerrieri e i suoi custodi decorati, perché da tempo nelle tasche dei militari finisce solo la vergogna. Hanno il frigo vuoto, anche loro. Perché non possono neanche più rubare. Alla Rivoluzione senza petrolio non rimangono neppure Paesi decisi ad appoggiarla in cambio della merenda bolivariana che per anni ha sfamato molti ed è stata la nutrice di una serie di leader, da Evo Morales fino alle nuove leve spagnole di Podemos e di Izquierda Unida, pattuglia salvatrice dell’ autoritarismo che sta ancora pagando le vacanze nel parco a tema venezuelano.
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Sono nata e cresciuta in un Paese che ha accolto uomini e donne di un’ altra terra. Sarti, panettieri, muratori, idraulici, negozianti, commercianti, traduttori, giornalisti, professori. Spagnoli, portoghesi, italiani e qualche tedesco andati a cercare alla fine del mondo un posto dove reinventare il ghiaccio. Mio padre, spagnolo, e mia madre, nipote di donne criollas che alla fine dell’ Ottocento avevano sposato italiani provenienti dal Veneto, uomini sbarcati al porto de La Guaira per costruire la ferrovia nelle valli di Aragua. Loro sono la prova di una terra che ha cercato l’antidoto della vita, del lavoro e del sacrificio, gente che ha trovato in Venezuela il luogo dove seminare il ceppo con cui si è costruito un nuovo Paese: una patria che deriva da quella formata, insieme, dalla loro e dalla nostra.
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Anche se il coro del terzo atto del Nabucco parla del popolo ebraico ed è stato scritto da Verdi nell’ Italia dell’ Unità, contiene parole che sono schegge pronte a prendere fuoco in ogni epoca, soprattutto la mia. Oh mia patria sì bella e perduta! Oh membranza sì cara e fatal!. Che parli delle rive del Giordano o delle torri distrutte di Sion non è così importante. Va pensiero è la melodia della perdita. Gli ebrei rimpiangono la loro terra, come altri la propria. Loro attraversano il lungo esilio cantando, cercando di avere fede: Dio distruggerà Babilonia, ma loro continueranno a camminare. E, forse per questo, per l’ idea confusa che producono, insieme, la fede e la distanza, la perdita e la persistenza, udendo quell’ atto dell’ opera verdiana i polmoni si riempiono d’ aria, e la voglia di cantare si confonde con quella di urlare.
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Nei prossimi giorni il Venezuela potrebbe, finalmente, trovare pace. Le elezioni democratiche invocate dall’ Asamblea Nacional sarebbero una porta aperta per ridare ordine a qualcosa che si è spezzato, ma l’ iniziale silenzio del governo spagnolo rappresentato da Pedro Sánchez e persino l’ambiguità della stessa Unione Europea gettano palate di terra, scavano la tomba dell’indolenza.
Non c’ è da stupirsi. Noi venezuelani scontiamo la maledizione di Cassandra: abbiamo cercato di avvertire, ma è stato inutile. Nessuno ci ha creduto. Quel silenzio fa male. Fa male a me e ai miei morti: quelli uccisi dal regime bolivariano; quelli che non sono vissuti abbastanza da vederlo cadere; quelli che soffrono, morti viventi e spinti all’esilio; quelli che trascinano i piedi sulle strade, mossi dalla fame e dalla disperazione; quelli che sperano ardentemente di tornare in un Paese che non esiste più; quelli che, come i miei nonni, hanno attraversato il mare e hanno fatto un nuovo Paese mescolando il loro e il nostro.
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Per essere uno che viene dal futuro, Maduro non si rende conto che la Costituzione sancita e approvata vent’anni fa dal regime stesso non gli dà ragione. Il testo che ha usato per conservare il potere descrive e consacra nel suo articolo 233 il disconoscimento del suo mandato e la necessità di indire le elezioni entro trenta giorni.
Non è un Colpo di Stato, perché non si può colpire uno Stato che non esiste. Ma il tiranno e la sua pattuglia di afoni non se ne rendono conto. Seppure bella e perduta, se esiste qualcosa di simile a una patria, lo capirà nel luogo che abbiamo concimato noi, vivi e morti. Noi venezuelani potremo seppellire i nostri soltanto quando ci saranno pace e giustizia. Per il momento, non abbiamo né l’una né l’altra. Ci piove addosso il silenzio, disgrazia che, come nel Nabucco, bagna le spalle degli schiavi sulle rive del Giordano.
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La Repubblica, 31 gennaio 2019

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