Attenzione al linguaggio. Ciò che sta avvenendo sulle nomine dei vertici della Rai non è una lottizzazione. Con tale termine si indicava, con qualche giusto disprezzo, la pratica dei partiti (in particolare quelli del centrosinistra degli anni settanta-ottanta) di spartirsi le postazioni di comando. Tuttavia, a parte la qualità delle persone indicate, quel metodo deprecabile seguiva un percorso: sedi di partito, commissione di vigilanza, consiglio di amministrazione. E nel tragitto succedeva pure che un nome cambiasse perché considerato inadeguato o inopportuno. Nostalgia? Niente affatto.
Nel 1993 con fatica passò una legge innovativa, che toglieva lo scettro alle forze politiche per consegnarlo ai presidenti di Camera e Senato. Ma la legge dell’ex ministro Gasparri del 2004 abrogò il tutto. Fino al pasticcio del 2015 voluto dalla maggioranza di Matteo Renzi, che ha dato il potere tout court al governo. E, infatti, ciò che sta accadendo è figlio proprio dell’attribuzione all’esecutivo di funzioni abnormi. Contro una consolidata giurisprudenza costituzionale.
Ecco perché è improprio evocare la lottizzazione. L’attuale forma del potere è un vero e proprio assalto guerresco, deciso sì e no da quattro persone e, forse, con qualche suggerimento arrivato da altri luoghi. Dopo la vicenda di Cambridge Analytica e i soprassalti filo-putiniani testi e sottotesti si complicano.
Intendiamoci, finora la decisione proveniente da palazzo Chigi riguarda i due consiglieri mancanti, dei quali uno –Fabrizio Salini, ex Fox, La7, Stand by me società che lavora con la Rai- è indicato come il nuovo amministratore delegato, e l’altro –Marcello Foa, ex de il Giornale e della società che edita il Corriere del Ticino- al momento è solo un componente del cda di viale Mazzini. Come hanno fatto notare la Federazione della stampa e il sindacato dei giornalisti della Rai.
Il designato Foa sarà pure proposto dai suoi colleghi come presidente, ma dovrà ottenere il gradimento dei due terzi della commissione parlamentare. Non sarà affatto una passeggiata e per lo meno intempestiva è la sicurezza esibita dalla biografia che si leggeva su Wikipedia già nel primo pomeriggio di venerdì.
Il conclamato sovranismo, il giudizio sul presidente Mattarella, un certo leghismo da tifoseria come emerge da twitter non giovano certamente al profilo di una presidenza teoricamente di garanzia. Diventerà davvero presidente?
E’ sicuro, invece, che il servizio pubblico cambierà seccamente e neppure resisteranno le tradizionali rose di nomi per reti e telegiornali, costruite con troppe analogie con il passato. Ci sarà un colpo di spugna e ne vedremo delle belle. E sì, la Rai sarà non più un territorio di compensazione e di compromesso, bensì la prima fila della lotta giallo-verde per l’egemonia e per il controllo sull’informazione.
Il vecchio “partito Rai” è devastato e i riti del servizio pubblico cambieranno i loro breviari. Una rottura “epistemologica”, direbbe la filosofia.
il manifesto, 28 luglio 2018