La salute sostenibile

06 Maggio 2018

Libertà e Giustizia ha promosso, a Firenze, una riflessione ed alcuni incontri – in collaborazione con l’Associazione “Diritti a Sinistra” -, sul tema del Servizio sanitario e, più in generale, del sistema di welfare, che è stato, di fatto, messo in progressiva crisi dalle politiche economiche neoliberiste.

Su tale tematica è stato pubblicato, dal Pensiero Scientifico Editore, il libro di Marco Geddes da Filicaia, La salute sostenibile – Perché possiamo permetterci un Servizio sanitario equo ed efficace, che riprende e approfondisce quanto abbiamo congiuntamente discusso in questi mesi.

Dalla Introduzione del libro abbiamo ripreso il testo sotto riportato.

«Un servizio sanitario nazionale (Ssn) su base universalistica, che assicuri a tutti i cittadini l’accesso a prestazioni definite come essenziali (i LEA – Livelli Essenziali di Assistenza), basato sulla fiscalità generale, non è più sostenibile. I motivi sono evidenti: la popolazione invecchia, la incidenza di malattie croniche aumenta e vi è un incremento di prestazioni e di consumo di farmaci; le tecnologie e i farmaci sono sempre più costosi, poiché necessitano di ingenti finanziamenti orientati alla ricerca; la spesa sanitaria è in continuo incremento e non compatibile con la stabilità finanziaria; l’impegno dello Stato in questo sistema di welfare non può continuare a crescere! Bisogna trovare altre fonti di finanziamento, un altro pilastro, attraverso un sistema assicurativo e i fondi sanitari integrativi. Se, chi può, in base al reddito, ricorre ad un sistema parallelo, alleggerisce il carico di prestazioni che il Ssn deve erogare, che si potrà così orientare verso chi non può permettersi un’assicurazione. Questa soluzione consente di ridurre i costi a carico dello Stato e il Ssn potrà continuare a offrire le proprie prestazioni a una parte consistente della popolazione».

Leggete con attenzione queste affermazioni che appaiono di una logica stringente per come sono formulate. In questi anni, in questi ultimi due o tre decenni questa “narrazione”, come si suole dire, ha preso campo, nella mente (e nel cuore?) di tante persone. È diventata, in una parte della popolazione italiana, senso comune, ad onta del buon senso! Una narrazione accompagnata da alcuni inganni linguistici, in questo come in altri campi, a cui si ricorre sia con l’uso di termini trasferiti dal mondo anglosassone, sia con ossimori.

Del primo tipo di terminologia la sanità fa grande uso, non solo in ambito scientifico, nel quale la derivazione dall’inglese è più contestualizzata e motivata, ma anche in ambito finanziario e gestionale. Così abbiamo il budget, che è la sintesi di risorse e obiettivi che vengono contrattati fra professionisti e direzioni aziendali. Poi vi è il ticket, che altro non è che una tassa sulla malattia, come una volta c’era la “tassa sul sale”. Opting out è il termine con il quale si apre la strada all’uscita dal sistema sanitario delle classi abbienti, che possono così, attraverso un out of pocket intermediato da un sistema assicurativo, ricorrere a un servizio parallelo.

Vi sono poi gli ossimori, un procedimento retorico che significa “acuto – stupido” (ὀξύς «acuto» e μωρός «stupido») e come tale appare la definizione universalismo selettivo, là dove il primo termine indica qualcosa di valido per tutti, per il genere umano (come la salute, appunto, definita un diritto dell’individuo dalla nostra Costituzione) e il secondo, selettivo, significa invece discriminatorio, eliminativo, esclusivo.

Ma agli ossimori ci siamo spesso dovuti abituare, fino all’oscenità della definizione di alcune guerre come guerre umanitarie!
Forse vale la pena soffermarsi sui vari aspetti della dichiarazione riportata all’inizio di questo contributo, poiché talora le parole «[…] instaurano una realtà immaginaria, animano le cose inerti, fanno vedere ciò che ancora non esiste» e «[] la singola parola, la singola frase possono assumere significati molto diversi, addirittura contrapposti, a seconda del contesto in cui appaiono». È utile quindi domandarsi se quanto viene effettuato è reale o immaginario: se l’obiettivo dichiarato di rendere sostenibile il Servizio sanitario sia veramente il fine che viene perseguito oppure, in questo contesto, tale affermazione assuma invece un opposto significato.

Proviamo a formulare quindi alcune domande:

  1. Lo Stato italiano destina al Servizio sanitario nazionale un finanziamento rilevante e in crescita negli ultimi anni? Su quali parametri, in base a quali confronti con la spesa per la sanità sostenuta da altri Paesi, si fonda questa affermazione o questo convincimento?
  2. Quale è l’entità di spesa sanitaria che si ritiene sostenibile? Il limite è spendere quanto uno dei paesi confinanti (Francia, Germania, Svizzera) in termini assoluti pro capite? O in termini relativi, cioè rispetto al Pil? E poi si tratta di una compatibilità per la spesa sanitaria pubblica o anche per quella privata? Si tratta, in altri termini, di un problema di bilancio dello Stato e quindi delle risorse che vengono orientate a sostegno di un determinato settore delle politiche pubbliche, come istruzione, ricerca, sanità etc.? Oppure il problema riguarda la spesa sanitaria complessiva e quindi l’entità di risorse che la singola persona o la famiglia destina a tale settore, attraverso il prelievo fiscale e la spesa sanitaria privata diretta o intermediata, non orientandola invece verso altri consumi, investimenti o verso il risparmio?
  3. Se la spesa sanitaria fosse insostenibile in base al suo trend di crescita (ma c’è un trend di crescita?) il rimedio suggerito, consistente in un secondo pilastro di finanziamento (assicurazioni private o fondi sanitari) risulta risolutivo? Vale a dire, in base a esperienze di finanziamento misto (l’esempio più lampante è quello Usa, con pubblico, privato, assicurativo), la spesa sanitaria risulta più contenuta?
  4. Un sistema misto assicura una più adeguata risposta ai bisogni di salute in termini di efficienza, efficacia ed equità? Vi sono dimostrazioni in tal senso?
  5. La crescita della spesa sanitaria, nel lungo periodo, è ineludibile? In altri termini una collettività, uno Stato, un Sistema sanitario non potrebbero contenere la spesa sanitaria attraverso una serie di iniziative, quali l’eliminazione degli sprechi e della corruzione, un sistema di controllo del costo dei farmaci, la ricollocazione di investimenti da iniziative di scarsa efficacia a quelle di elevato valore, il miglioramento dello stato di salute con interventi di prevenzione, etc.?

È necessario capire se quanto viene dichiarato: “Il Servizio sanitario per tutti è insostenibile” e quanto viene proposto: “Un sistema misto rappresenta la soluzione adeguata” abbiano delle basi empiriche solide o assomiglino piuttosto a quanto nella logica e nella filosofia della scienza si definisce controfattuale, cioè una asserzione condizionale in cui l’antecedente falso “troppo oneroso e non più sostenibile”, fa scaturire una soluzione che non ha alcuna base empirica “adottiamo un sistema misto, che rende la spesa sanitaria compatibile”!

Chi si riconosce, o chi propone quanto illustrato nella dichiarazione esplicitata all’inizio di questo contributo, ha un insieme di motivazioni diversificate.
Vi è in alcuni un pregiudizio ideologico molto radicato, in conseguenza del quale si considera ciò che è pubblico e collettivo un ineludibile spreco, e si vede nel mercato la fonte certa di un equilibrato meccanismo fra offerta e domanda, quale conseguenza di responsabili scelte e comportamenti individuali. Una posizione che stupisce di fronte a venti anni di disastroso liberismo, che resiste coriacea, rigida, indifferente e insensibile alla realtà dei fatti. Visione che, trasferita al “mercato sanitario” ha scarsissimi presupposti, sia teorici che empirici, non solo per la asimmetria informativa, argomento assai studiato, ma anche in base a una qualche conoscenza della realtà italiana, della influenzabilità e possibilità di manipolazione di una popolazione in cui la cultura scientifica non è certo diffusamente radicata, come si evidenzia dai ricorrenti fenomeni nel nostro paese, quali il caso Di Bella, la vicenda Stamina, il timore di diffusione dell’autismo in conseguenza della vaccinazione per il morbillo.

In altri vi è invece la certezza che le disuguaglianze siano un elemento positivo nella società. Parliamo di disuguaglianze, non di diversità. Forse sono un elemento positivo per i pochi (per loro pochi), non per i piùe, nel medio periodo e con l’ampliamento delle diseguaglianze, saranno un fattore negativo per tutta la collettività, poiché, come affermava Thomas Carlyle, “se non si fa qualcosa, un giorno qualcosa si farà da sé, e in modo che non piacerà a nessuno

Infine vi sono gli interessi. Sì, proprio gli interessi: soldi, possibilità di ulteriori guadagni, accesso a posti decisionali etc.
Le società non sono paragonabili ad una maionese ben omogena, ma sono un crogiuolo di valori e di interessi diversificati e in parte contrapposti, per cui è necessario scegliere da che parte stare, tracciando anche una linea di demarcazione al di là della quale non vi sono certo nemici, ma avversari con i quali confrontarsi e ai quali contrapporre, con argomentazioni, con intelligenza, ma anche con orgoglio, valori differenti e interessi differenti: gli interessi appunto, di molti, rispetto agli interessi di pochi.

(*) L’autore è medico epidemiologo.

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