“Buio a mezzogiorno”, così il titolo del famoso romanzo di Arthur Koestler. Sembra assai appropriato per fotografare la situazione dell’informazione italiana, punto nero delle politiche del governo, malgrado la competenza al riguardo del Presidente del consiglio Gentiloni. Se ne è parlato nell’assemblea dell’Associazione della stampa romana, mobilitata sui vari fronti della crisi. Una laica via crucis, un girone dell’inferno. Dalle emittenti locali scomparse o ridotte all’osso (T9, Roma uno, Teleroma56), alle scelte nordiste di Sky (con un management sordo persino ai richiami di Papa Francesco) e ora pure di Mediaset, alla inquietante vicenda del Sole24Ore.
C’è materia per convocare con urgenza degli “Stati generali”, come fu fatto con successo in Francia, in cui il potere esecutivo presenti un piano straordinario fondato su finanziamenti adeguati delle ristrutturazioni, su agevolazioni fiscali, sull’obbligo per tutti gli uffici stampa delle aziende di assumere giornalisti disoccupati e precari. La recente legge sull’editoria, con il corredo dei suoi decreti attuativi, non basta. E le imprese che utilizzano le onde herziane –bene comune- non possono fare il bello e il cattivo tempo, come già si accennò in questa stessa rubrica. L’affidamento delle frequenze in tanto è avvenuto in quanto si legava ad un piano industriale. Si deve vigilare sul rapporto tra le pompose dichiarazioni dei vertici del gruppo di Murdoch o del Biscione sulle prospettive societarie, e la miseria delle soluzioni pratiche. Anzi. Dietro lo spostamento degli studi a Rogoredo o a Cologno Monzese si può sospettare che si celino progetti di ridimensionamento del lavoro e della stessa ampiezza dell’offerta.
Tra le diverse pagine buie spicca ora, l’emergenza delle agenzie di stampa. Sabato scorso le redazioni hanno scioperato, in risposta alla mancanza di riguardo sindacale della parte governativa e all’inopinata evocazione di una “gara europea” per l’affidamento dei servizi di informazione di palazzo Chigi. Siamo di fronte ad una vera e propria bizzarria. Si sta parlando, per l’appunto, di specifici servizi e non di appalti generali. Non si vive di solo Bolkestein. E poi, se c’è un elemento connotativo dello Stato-nazione è proprio questo. Le agenzie sono il tessuto nervoso del’edificio democratico e –in un certo senso- sono l’epifania della lingua intesa come identità profonda e non solo grammatica o sintassi. Si chiuda finalmente simile querelle, che rischia di ridicolizzare la sacrosanta richiesta di correttezza e trasparenza del codice degli appalti, nonché dell’Autorità anticorruzione.
Del resto, quale altro paese europeo mette a bando le proprie fonti primarie? La valenza pubblica delle agenzie non è meno significativa di quella che ispira la convenzione tra lo Stato e la Rai, in discussione presso la commissione parlamentare di vigilanza. Esistono, cioè, comparti che per loro natura non possono sottostare alle medesime regole di movimento delle merci “normali”.
Serve, forse, uno specifico atto di indirizzo, supportato magari da una condivisa mozione parlamentare. Serve un chiarimento impegnativo, che assuma la veste di una norma “speciale”.
Insomma, la materialità dei media torna pesantemente di attualità. La mostruosa potenza tecnologica digitale e la dittatura degli algoritmi non permettono leggerezze. Serve un bagno di realismo, aprendo gli occhi sulla povertà reale di un settore, mai preso davvero sul serio.
Il Manifesto, 29 Marzo 2017