Sui giornali impazza il gioco delle «simulazioni»: cosa accadrebbe se si votasse con le leggi elettorali venute fuori dalla sentenza della Corte costituzionale?
Certo, i più avvertiti autori di queste esercitazioni invitano alla cautela; ma molti non vanno troppo per il sottile e si alzano accorate lamentazioni: «Si torna alla prima Repubblica!». Si può ben dire: si stanno facendo i conti senza l’oste… ossia, gli elettori.
Il patchwork che emerge come normativa residuale dalle sentenze della Corte ci offre due sistemi niente affatto omogenei: un minimo di ragionevolezza politica imporrebbe quanto meno un’azione legislativa di ordinaria manutenzione.
Non sappiamo se e come questo accadrà; ma, intanto, possiamo ipotizzare che rimanga il quadro attuale: ebbene, gli allarmi catastrofisti sulla «ingovernabilità» ignorano un dato essenziale, ossia che una competizione su base proporzionale modifica completamente lo scenario strategico in cui agiscono i diversi attori politici.
Innanzitutto, induce a fare i conti con un possibile esito del voto, ossia che si renda necessaria, in parlamento, la ricerca di accordi per la formazione di una maggioranza. Questo dato cambia i termini dello stesso confronto politico che si svolge dinanzi agli elettori: diviene essenziale far emergere il grado di compatibilità programmatica tra le diverse forze e possono essere incentivati atteggiamenti meno divisivi e più aperti alla mediazione.
I partiti sono indotti a rivolgere un discorso molto semplice agli elettori: dateci più forza per sostenere il nostro programma ed, eventualmente, poter trattare un buon accordo con altre forze (dicendo chiaramente con quali è possibile e con quali è escluso). Forse si può sperare in una migliore qualità del discorso pubblico. Del resto, con il voto del 4 dicembre abbiamo difeso la natura parlamentare della nostra democrazia, ed è quindi bene sgomberare il campo da un’aberrazione politica e linguistica: non possiamo etichettare come «inciucio» ogni possibile e legittima mediazione parlamentare post-elettorale.
Abbiamo contestato l’idea che si dovesse conoscere il vincitore «la sera delle elezioni»: occorre essere coerenti.
Questa logica della competizione (assieme ad altri fattori: in primo luogo, un vero rapporto tra rappresentanza politica e territorio), può cambiare totalmente il comportamento degli elettori (specie in presenza di un’elevata volatilità elettorale). È una partita aperta, inizio di un nuovo gioco: e anche per questo le simulazioni lasciano il tempo che trovano.
Più utile appare un’analisi del quadro strategico cui si trovano di fronte i diversi attori politici. Partiamo dal Pd: sembra di capire che Renzi voglia puntare sulla soglia-obiettivo del 40%, come cavallo di battaglia in difesa della governabilità.
Pensa davvero di poterlo raggiungere, o forse pensa soltanto di ripetere la strategia politico-mediatica di Veltroni, nel 2008, quando si cercò di accreditare l’idea della «grande rimonta» (inducendo molti elettori al voto utile)? Quel che è certo è che questa scelta condurrà ad esiti apertamente trasformistici. Si aprirà il grande gioco delle contrattazioni notabilari periferiche: un posto in lista in cambio di un pacchetto di voti. L’obiettivo è chiaro: una centralità del Pd, con un bottino di seggi quanto più possibile cospicuo, in grado di calamitare una qualche galassia. Ma questa strategia potrebbe avere un prezzo: il Pd potrebbe essere costretto a chiarire con chi pensa di poter governare: e, in questo momento, non ha risposte o non ha risposte appetibili (Alfano, Verdini?).
Un dilemma altrettanto serio si pone per il M5S: i sistemi elettorali precedenti (e anche l’Italicum) regalavano al M5S una comoda rendita di posizione, che permetteva di catalizzare tutte le più svariate ragioni di protesta e di risentimento: con un sistema proporzionale, il M5S potrà continuare questo gioco? Dirà anch’esso che punta al 40%? E con quanta credibilità? E’ ancora sostenibile la scelta isolazionista, o forse una parte dei suoi elettori non potrebbe cominciare a guardarsi attorno, alla ricerca di un’altra offerta?
Infine, Sinistra Italiana, che si prepara al suo congresso. In questo nuovo scenario competitivo, anche per questa forza politica si pongono non pochi problemi. Una volta definita la propria autonomia e identità programmatica (premessa ineludibile) e il suo carattere alternativo rispetto alle scelte del Pd renziano, occorre chiedersi: serve forse a qualcosa gridare a voce alta «mai col Pd!»? e quanto produttiva, sul piano elettorale, sarebbe una scelta che si limitasse a testimoniare questa alterità?
Gli elettori, dopo tutto, (e anche gli elettori di sinistra) votano molto più volentieri per un partito che conti, e che voglia contare: che difenda valori e interessi, ma che metta in gioco la propria forza. Sinistra Italiana ha una grande chance: ridare voce alle ragioni della sinistra, chiedere più forza per mettere in crisi il disegno neo-centrista del Pd renziano, rivolgersi in modo aperto e unitario agli elettori di sinistra dispersi e delusi, dare una sponda a quegli elettori che rischiano di trovarsi sotto l’ennesimo ricatto del voto utile.
Ma, per fare tutto ciò, limitarsi a dire «mai col Pd» è una scelta riduttiva, una scelta che respinge e non attrae. Tanto più di fronte ad uno scenario politico, e ad un quadro delle forze in campo, che può cambiare rapidamente. Con il sistema elettorale che si profila, ci si appella agli elettori per ricevere più forza e per pesare nei futuri equilibri politici. E si è tanto più credibili quanto meno ci si chiama fuori, dando per scontato che saranno altri a governare.
il Manifesto, 2 Febbraio 2017