Il libro di cui vi parliamo è un manifesto anti-rottamazione. Non solo perché uno degli autori è un “professorone”, ma perché l’altro è un suo allievo. E dunque questo lavoro testimonia che c’è un modo diverso – la staffetta, la trasmissione dei saperi – per attuare il ricambio. Loro diranno, noi diciamo è un vademecum sulle “riforme” istituzionali che Gustavo Zagrebelsky ha scritto con Francesco Pallante, professore associato di Diritto costituzionale a Torino. Il risultato è appunto un “noi”, pronome che non solo indica un augurabile plurale contrapposto alle smanie egocentriche del premier, ma è anche il senso di un punto di vista condiviso, che va oltre la differenza generazionale.
Perché? Perché le idee sono più importanti, così come lo è quel patto che unisce il nostro popolo, ovvero la Costituzione. Non la più bella del mondo, ma semplicemente migliore di quella che diventerà se una riforma confusa dovesse superare il referendum d’autunno. I lettori del Fatto conoscono bene le ragioni, ma è interessante leggere le risposte, punto per punto, agli slogan che il governo ci ha propinato nei mesi scorsi (e appena si riprenderà dal sonoro ceffone elettorale, ricomincerà a propinarci).
Slogan come “Ce lo chiede l’Europa”, il cui valore è solo un po’ indebolito dal recente esito del referendum inglese. “Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi”, scrivono i due giuristi, “se non principalmente il tentativo di garantire gli equilibri economico-finanziari del continente per venire incontro alla ‘fiducia degli investitori’ e proteggerli dalle scosse provenienti dal mercato mondiale.
A questo fine, l’Europa ha bisogno di istituzioni statali che eseguano con disciplina i diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al ‘caro primo ministro’, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. “Dite: ‘Ce lo chiede l’Europa’ e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da ‘analisti’ di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e Parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le ‘riforme’ in corso nel nostro Paese”.
ll riferimento è anche a quel report di Jp Morgan (una delle banche d’affari responsabili, secondo il governo americano, della crisi dei mutui subprime che ha portato alla più grave recessione mondiale dai tempi della Grande depressione) dove si puntava il dito contro i sistemi politici del Sud Europa, con “Stati centrali deboli rispetto alle regioni, la tutela costituzionale dei lavoratori (…) il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi”.
Si tratta di capire chi sono i mandanti, e chi vuole davvero queste “riforme”. Non noi. Un sondaggio di Ipsos per DiMartedì del 3 maggio scorso calcola che solo il 6% per cento degli italiani ritiene una priorità riformare la Costituzione. Nello stesso sondaggio, riproposto tre settimane dopo, la percentuale scende al 4%: più si parla della riforma, più gli italiani la giudicano inutile.
Inutile ma potenzialmente dannosa, come i due professori ben spiegano in queste pagine, rivolte a tutti e che analizzano guai, pericoli e insidie nascoste nelle “riforme” (revisione costituzione, la modifica del Senato, più nuova legge elettorale). Dalla confusione inimmaginabile (ci voleva fantasia per partorire un meccanismo così complicato) nell’iter di formazione delle leggi, all’incomprensibile natura del Senato delle Regioni che assai poco si occupa di enti locali.
Per non dire delle storture con le quali si è svolto il processo di approvazione della legge di revisione, tra scorciatoie parlamentari di ogni tipo. In televisione si parla poco delle “tecnicalità” (che qui sono spiegate bene e in modo comprensibile), pensando che gli spettatori si annoino. Ma se non stiamo attenti le “tecnicalità” a breve ci toglieranno il diritto di votare i nostri rappresentanti (in Senato e alla Camera grazie alla legge elettorale, simil Porcellum).
Il Fatto Quotidiano, 1 Luglio 2016