Gustavo Zagrebelsky: “Degrado inaudito: Mattarella parli chiaro, il governo stia al suo posto”

14 Dicembre 2015

Silvia Truzzi

“Mettiamo in fila i fatti”, dice Gustavo Zagrebelsky alla prima sollecitazione sulla Consulta zoppa. E sia. Ci sono tre posti vuoti. La Corte corre il rischio di paralisi. Siamo giunti a dodici. Se scende sotto gli undici, per legge non può deliberare. Il rischio del blocco, per la prima volta nella storia repubblicana, è tutt’altro che teorico, data la fragilità di persone avanti con l’età. “Il primo posto si è reso libero a giugno dell’anno scorso, il secondo a gennaio e il terzo a luglio di quest’anno. Si è fatto finta di voler provvedere con finte convocazioni delle Camere riunite e una trentina di votazioni a vuoto. Non si avvertiva, evidentemente, nessuna urgenza. Ora, nelle ultime settimane, al prolungato surplace è subentrata la volata: bisogna fare in fretta, il Parlamento deve essere convocato a oltranza; perfino le feste natalizie devono passare in secondo piano; bisogna chiuderli tutti dentro, lesinare il cibo, scoperchiare il tetto fino a quando non ne escono con i tre giudici bell’e fatti”. Come si spiega la “volata”? Semplice. Siamo nell’imminenza di alcune decisioni su materie alle quali il presidente del Consiglio, il governo e la sua maggioranza sono particolarmente – diciamo così – sensibili: i diritti dei lavoratori, i diritti degli elettori, l’autonomia scolastica, le cause d’ineleggibilità, per esempio. Jobs act, Italicum, “buona scuola”, “legge Severino”? Sì, ma preferirei meno provincialismo, meno slogan, e parlare in italiano.   L’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento dipende da valutazioni politiche, necessariamente partitiche? Non solo è inevitabile, che sia così; non solo è ciò che dice la Costituzione, ma è anche un bene. La Corte è un collegio in cui si mescolano culture ed esperienze diverse, in vista di deliberazioni complesse, così come complessa è la struttura della Costituzione. C’è posto anche per giuristi, come si dice, “di area”. Infatti, abbiamo avuto eccellenti giudici costituzionali di provenienza parlamentare. Cito soltanto, tra i più noti, Leopoldo Elia, Mauro Ferri e Valerio Onida. La provenienza dal voto parlamentare non esclude affatto l’autonomia di giudizio che, d’ogni giudice e, massimamente, dei giudici costituzionali, è il primo requisito. E nemmeno pregiudica quell’altra esigenza di buon funzionamento di un organo come la Corte, che è l’attitudine deliberativa, l’arte del dialogo in vista di decisioni il più possibile inclusive delle buone ragioni in campo. Mai, tuttavia, è accaduto – e qui sta la differenza – che si sia stati eletti in prossimità di specifiche decisioni, con un implicito o esplicito mandato per prefigurare maggioranze di giudici favorevoli ai mandanti e così alterare il funzionamento d’un organo che deve essere indipendente.   Ritiene che i nomi fatti non siano adatti al compito? Innanzitutto, uno dei tre, Augusto Barbera, è indubitabilmente un affermato costituzionalista, giustamente circondato da generale considerazione. Gli altri, per quanto conosco, mi paiono piuttosto buone promesse, boccioli che possono sbocciare. Ma non è questo il punto. Del resto, spetta al Parlamento formulare questo genere di giudizi e, tra i parlamentari, c’è certo chi ha le conoscenze adeguate e dovrebbe far sentire la propria voce, finora silente, per orientare le opinioni degli altri, digiuni di giurisprudenza.   Se non è questo, allora che cos’è? È che quelle degne persone sono incappate in un gioco costituzionalmente inammissibile, quello che dicevo prima: il mandante che cerca i suoi mandatari, anche nei campi, come quelli della giustizia, in cui non dovrebbero esserci né mandanti né mandatari. Siamo di fronte a un degrado istituzionale senza precedenti, a un’invasività degli interessi politici che viola la separazione costituzionale delle funzioni, che prefigura sinistramente le mani sulle istituzioni di garanzia, le quali mani non incontrerebbero resistenze una volta portato a termine il ridisegno istituzionale che il governo sta perseguendo. Ma la legge stabilisce che i giudici costituzionali non possono svolgere attività inerenti ad associazioni e partiti politici: non dovrebbe valere la stessa cosa, al contrario?   Quelle che lei chiama “degne persone” dovrebbero mettersi da parte, per non partecipare al gioco? Non dico questo. La carica di giudici costituzionale è, per buone ragioni, molto desiderata e non possiamo far finta di ignorare le umane ambizioni, tanto più quando esse sono ampiamente giustificate dai meriti culturali acquisiti. Sarebbe ipocrisia il contrario. Inoltre, non possiamo affatto escludere che, una volta eletti, costoro si svincolino effettivamente da ogni mandato. L’ethos della carica, qualche volta, prevale perfino sui caratteri personali. Negli Stati Uniti, dove i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente, si parla di “debito d’irriconoscenza” che i neo-nominati dovrebbero onorare per affermare fin dall’inizio e una volta per tutte la cessazione d’ogni rapporto con colui a cui devono la nomina.   A chi spetta smettere di giocare con le istituzioni? Al Parlamento, ai gruppi parlamentari, ai singoli che godano di qualche credibilità in faccende costituzionali, spetta sbrogliare la matassa, facendo proposte fuori da ogni diktat dell’esecutivo. In Parlamento devono trovarsi gli accordi sufficienti a raggiungere l’ampia maggioranza richiesta e necessari a sconfiggere la logica del mandante. A quanto risulta, nulla di ciò è accaduto, con la conseguenza delle numerose fumate nere che si sono finora susseguite.   Qualcuno ha invocato un intervento del presidente della Repubblica, ricordando un precedente in cui si è minacciato lo scioglimento delle Camere. La minaccia mi pare fuori della realtà. Oltretutto, potrebbe portare a soluzioni purché siano, in stato di necessità. Non è il Parlamento che deve essere minacciato, ma è il governo che deve essere richiamato a stare al suo posto e sono i parlamentari a dover essere esortati al libero esercizio delle loro funzioni. Per questo, occorrerebbero puntualizzazioni presidenziali precise, al di là delle vuote e insignificanti espressioni rivolte al Parlamento, del tipo “occorre uno scatto di reni”, che non vogliono dire niente.

Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015

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