Milano arancione, l’ultimo scalo del centrosinistra

11 Dicembre 2015

Il centrosinistra sarà anche finito, come dice Sergio Cofferati, ma a Milano funziona ancora. O almeno Giuliano Pisapia sta cercando di farlo funzionare, per eleggere un nuovo sindaco che non rappresenti il Partito della Nazione (come il Beppe Sala che piace tanto a Matteo Renzi), ma quella unione di forze – Pd, Sel, indipendenti di sinistra, cattolici, senza partito, associazioni, movimenti e liste civiche – che dovrà decidere se farsi rappresentare da Francesca Balzani o da Pierfrancesco Majorino.

Con la sinistra che se ne va, a Milano vince Sala e s’impone, con i voti dei ciellini, il Partito della Nazione. Se invece la strana coalizione “arancione” resta unita, alle primarie e poi alle elezioni del sindaco potrà vincere la candidata (o il candidato) indicato da Pisapia. In fondo, la coalizione milanese non è molto diversa dall’Ulivo di Romano Prodi che un paio di volte ha vinto anche le elezioni nazionali –le uniche due volte in cui non ha trionfato la destra. Perché non provare a vincere, dice Pisapia, a Milano come già a Genova e a Cagliari?

Certo non sarà facile. E non tanto per la forza della destra, che anche a Milano appare confusa e rissosa. Quanto per le tendenze centrifughe ai due lati della coalizione milanese. Verso destra, una parte del Pd dà ragione di fatto a Cofferati, sperando nella rottura dell’alleanza e nel soccorso bianco dei ciellini, già pronti a votare Sala. Verso sinistra, una parte del ceto politico erede di Rifondazione comunista e di sigle e siglette reduci da un onorevole passato ha già deciso di fare da sola, votandosi alla sconfitta prima ancora di combattere.

Ancora tutto può succedere. Ma che il momento sia delicato è provato anche da ciò che è successo mercoledì 9 dicembre nell’aula consigliare di Palazzo Marino: è stata bocciata la delibera sugli scali ferroviari milanesi. Un segnale che un’epoca si è chiusa e che Pisapia, che a differenza dell’Ulivo era riuscito finora a tenere insieme tutta la sua coalizione, da qui in poi non ci riuscirà più. La riqualificazione degli scali Fs è l’operazione urbanistica più importante del quinquennio “arancione”. Riguarda sette grandi aree che insieme misurano 1,2 milioni di metri quadrati, più dell’area Expo, tanto per capirci. Era per la giunta Pisapia la scommessa sul futuro, l’eredità da lasciare. Sette aree da risanare e restituire alla città. Circa la metà, 600 mila metri quadrati, a utilizzo pubblico, di cui 531 mila a parco, con 5 mila nuovi alberi. L’altra metà, 676 mila metri, da edificare: edilizia libera (520 mila mq) e 2.600 nuovi alloggi di edilizia sociale (156 mila mq). Un buon piano? O un via libera alla cementificazione? Certo un bel passo avanti rispetto a quanto aveva già deciso il centrodestra di Letizia Moratti: una colata di cemento di 1 milione di metri quadrati.

Ma lasciando il potere di decidere che cosa fare a Fs, nel ruolo di grande operatore immobiliare con l’obiettivo di incassare dall’operazione circa 500 milioni di euro. In una città, oltretutto, che ha già tanto sfitto e invenduto da rendere l’operazione una vera incognita finanziaria. La destra ha votato contro “per opporsi al cemento”(certo, era troppo poco rispetto a quello che loro avevano previsto). A favore Pd, Sel e “civici”. Hanno fatto mancare la maggioranza il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo, Anita Sonego (Rifondazione), Marco Cappato (radicali), Roberto Biscardini (socialisti) Raffaele Grassi (Idv). Tutto da rifare, dunque, e non c’è più abbastanza tempo. La rottura a sinistra si è mostrata plasticamente e ora la palla passerà al successore di Pisapia. Chissà chi sarà.

Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2015

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