Il rispetto della Costituzione vale più della ragion di Stato: i giudici non possono decidere in base ad attese della pubblica opinione o della politica

05 Dicembre 2015

Lettera al Corriere della Sera di Valerio Onida*

Caro direttore, «Timidezza dei magistrati nel contrastare il terrorismo internazionale»? È la critica o il dubbio avanzato da Angelo Panebianco ( Corriere del 27 novembre). Naturalmente è ben possibile che in singoli casi vi siano state decisioni sbagliate di giudici che hanno assolto o scarcerato persone che invece avrebbero dovuto essere condannate o trattenute. Di questi casi sarebbe possibile discutere però solo analizzando le rispettive vicende alla luce dei fatti e della valutazione giuridica dei medesimi, per dire se si è trattato davvero di «infortuni», o se, come dice lo stesso Panebianco, «un’analisi più sistematica potrebbe mostrare un quadro diverso», e magari mostrare che si trattava di decisioni giuste. Non varrebbe, evidentemente, giudicare solo in base a fatti o a informazioni sopravvenute. Chi è stato assolto giustamente da un’accusa può, successivamente, incorrere in un altro reato, e nessuno potrebbe dire che avrebbe dovuto essere condannato già la prima volta, quando il reato non c’era. Chi è stato scarcerato (giustamente) perché non c’erano sufficienti indizi a suo carico potrebbe, in seguito, essere raggiunto da nuovi indizi o nuove prove che ne giustificano un nuovo arresto. Insomma, la giustizia di una decisione non si può misurare alla luce di ciò che è avvenuto dopo. Errori, certo, ci possono essere (e il sistema processuale appresta rimedi per rimediare agli errori dei primi giudici). Peraltro errori ce ne possono essere anche in senso opposto: condanne che non avrebbero dovuto essere pronunciate, arresti che non avrebbero dovuto essere compiuti o mantenuti. Le cronache non mancano di fornire materia anche in questo senso, e non per niente la Costituzione si preoccupa di chiedere che la legge provveda alla «riparazione degli errori giudiziari» (art. 24, quarto comma), e la legge prevede un indennizzo per chi abbia subìto una ingiusta detenzione.
In ogni caso il giudice (e lo stesso pubblico ministero) non può agire e decidere sulla base delle sole attese (spesso emotivamente sollecitate) di una pubblica opinione, o della «politica» cui riconoscere un «primato», o addirittura, come dice Panebianco, operando «al guinzaglio dei partiti». In questo senso, non si può davvero auspicare che la magistratura pensi di dover agire sempre e comunque e ad ogni costo «nella stessa direzione di chi cerca di bloccare una minaccia mortale», indipendentemente da ciò che prevedono la Costituzione e le leggi. Certo, le leggi vanno interpretate e applicate, anche dai giudici, avendo riguardo alla realtà su cui esse incidono. Ma specie nella materia penale, non è questione di adottare, in sede giudiziaria, una «linea dura» o una «linea morbida»: è sempre e solo questione di fare giustizia in relazione alle caratteristiche effettive del caso concreto, e di giudicare con equilibrio e attenzione, senza mai violare le garanzie fondamentali. L’opinione pubblica, o meglio settori di essa, aizzati anche da certe prese di posizione politiche, possono non di rado indulgere alla richiesta di una «giustizia sommaria», pur di vedere soddisfatte le proprie attese. Ma nello Stato costituzionale non c’è spazio per la giustizia sommaria; nessuna «ragion di Stato» può giustificare l’abbandono della legalità costituzionale.
Valgono qui pienamente le parole che un grande giudice, presidente per lungo tempo della Corte suprema di uno Stato, — Israele — che da sempre convive con la tragica realtà della guerra e del terrorismo, scrisse in una sentenza del 2004: «Il nostro compito è difficile. Noi siamo membri della società israeliana. Come ogni altro israeliano, noi riconosciamo anche il bisogno di difendere il Paese e i suoi cittadini contro le ferite inflitte dal terrorismo. Ma noi siamo giudici. Quando sediamo in giudizio, noi siamo soggetti a giudizio. Agiamo in base alla nostra migliore coscienza e capacità di comprensione. Guardando alla lotta dello Stato contro il terrorismo che si leva contro di esso, siamo convinti che, alla fine del giorno, una lotta condotta in conformità alla legge ne rafforzerà la forza e lo spirito. Non c’è sicurezza senza legge. L’osservanza delle previsioni della legge è un aspetto della sicurezza nazionale».
Di questi giudici abbiamo bisogno.

 (*Presidente della Scuola superiore della magistratura)

Il Corriere, 3 dicembre 2015

 

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