Il calcio ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce. Osvaldo Soriano
C’era una volta un’udienza, fissata per il prossimo 14 dicembre a Palazzo Giustiniani a Roma. C’era una volta e ora non c’è più. Che è accaduto mai, che non si possa fare? “E’ irrilevante”, disse la Regina, anzi il Re, in questo caso Giorgio Napolitano, nostro ex Capo dello Stato. “Un bi-Presidente in un processo che si è già tenuto per tre volte?”, domanderete voi. E per tre volte tutto è stato stravolto, anzi deviato causa depistaggio – come scivolare in un labirinto di bugie – e alla quarta volta finalmente… Beh, alla quarta volta, l’ex presidente stabilisce che il suo intervento, come uomo delle istituzioni per circa mezzo secolo e come ri-Presidente, malgrado ora ‘ex’, è irrilevante. Nemmeno la Regina di Lewis Carrol (antesignana dell’Isis che voleva far “mozzare il capo” ad Alice nel Paese delle Meraviglie) sarebbe arrivata a tanto. Non è solo questione di numeri a rovescio, ma di comportamenti a rovescio.
“Ma quali?” chiederete voi. Come mai un uomo che è stato per due volte presidente della Repubblica e per cinquant’anni nella politica italiana giudica irrilevante un suo intervento e manda tutto all’aria come un castello di carte? Eccesso di modestia o di stress? Come mai non trova il tempo e la voglia, non trova l’energia e la forza di farsi ascoltare da una Corte d’Assise che ritenendo – fino a poco prima – rilevantissima la richiesta di una sua audizione, tanto da trasferirla per rispetto e considerazione nella città dell’audito (Roma), malgrado la costosa trasferta e fissarla, fino a che non è arrivata una lettera – questa sì, inaudita – dell’audito? Semplicemente “perché è inutile”. A suo giudizio. E ha trovato anche che, tutto considerato, il capitolato della testimonianza ammessa era eccessivamente esteso. Meglio tagliare, dunque, e ancora meglio cancellare.
“E la Corte?”, proseguirete voi. La Corte, strano ma vero, consente. Di più, si è rimangiata impavida in un sol boccone la convocazione del testimone. Un boccone che ha ruminato per cinque ore, va detto; tanto almeno è durata la decisione, che s’immagina sofferta, a rischio di andare di traverso e far soffocare. Si è accorta, d’un tratto, di aver già acquisito elementi a sufficienza sul contesto sociale e politico dell’Italia del ’92, in cui avvennero le stragi di Capaci e via D’Amelio, in virtù di quanto già testimoniato. Da altri: Giuliano Amato, Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Pino Arlacchi. Perciò Giorgio Napolitano, che allora era presidente della Camera, non sarà ascoltato come testimone al processo Borsellino quater. Una decisione presa successivamente all’arrivo della lettera, in cui ha spiegato ai giudici come una sua eventuale deposizione, non avrebbe aggiunto nulla a quanto già dichiarato sugli stessi temi nell’altro dibattimento sulla trattativa Stato-mafia. Potenza delle Poste.
“Ma erano altri giudici e un altro processo!”, esclamerete voi. Forse già conosceva le domande che gli avrebbero rivolto e si sa che i bis non richiesti possono risultare noiosi. A domandare che l’ex capo dello Stato deponesse al Borsellino quater è stato l’avvocato Fabio Repici, difensore di Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, costituitosi parte civile nel processo. Ora alcuni hanno poi detto (e scritto): ha ‘vinto’ Napolitano. Ma a guardare meglio non pare così. Quello di Napolitano è stato un autogol clamoroso, che lo fa ‘vincere’ perdendo. Non solo e non tanto come ‘testimone irrilevante’, ma come Capo di Stato che dimostra così scarso interesse per l’accertamento della verità e scarsissimo desiderio di far affermare la giustizia.
E con lui perdiamo tutti. Ci perde la Corte d’Assise di Caltanissetta, la famiglia del giudice ucciso e i parenti delle altre vittime che vedono diminuite di molto le loro speranze di far chiarezza sulla morte dei loro cari. Ci perde l’Italia delle istituzioni e quella dei cittadini. Ci perde anche la storia. Perché se, come ha precisato Paolo Mieli nell’ultimo suo libro sulla memoria, la storia non si fa con i processi e non si scrive nelle aule dei tribunali, pure da qualche parte occorrerà cominciare. E da qualche evento. E da qualche fatto, magari accertato e di grande rilevanza. Oppure no: che non si è voluto accertare, su cui è calato il silenzio, su cui si sono spenti i riflettori, su cui è meglio tacere, non dire, non ricordare. “Shhh!”, insomma, irrilevante.
Ossia per fare la storia è meglio partire dal silenzio. E’ lì che si annida tutto, nel silenzio. Un silenzio lugubre, in quanto – come ha ricordato lo stesso Salvatore Borsellino – è nel silenzio che si consuma la morte in Sicilia. Tutto il contrario di quanto accade oggi con l’Isis, dove anche i cani morti (je suis a chien) trovano – giustamente – condivisione e sostegno da parte della pubblica opinione. Mentre noi non ne siamo capaci. Non siamo capaci di condividere lo sdegno, di condannare l’impudenza del potere, di opporci a quello che avviene sotto i nostri occhi, che è avvenuto in passato e potrebbe avvenire di nuovo. Ci vorrebbe un grande drammaturgo per descrivere quello che accade in Italia, tra tragedia e farsa. Ci vorrebbe coraggio. Ma Shakespeare, un inglese, è morto e noi pure non ci sentiamo troppo bene.
MicroMega, 23 novembre 2015