L’approvazione del disegno di legge di revisione costituzionale procede così velocemente nell’aula del senato che l’esame degli articoli si concluderà oggi, prima che i senatori verdiniani Barani e D’Anna, cacciati per i gestacci alle colleghe del Movimento 5 stelle, abbiano scontato la sospensione di cinque sedute. Non c’è stato bisogno di loro. Ma dell’insieme del gruppo di ex berlusconiani acquisiti alla maggioranza decisamente sì. Se n’è avuta dimostrazione ancora ieri quando, provati da quattro giorni di votazioni forzate, Verdini e i suoi hanno cominciato a marcare visita. Il punteggio con il quale la maggioranza ha respinto tutti gli emendamenti delle opposizioni è sceso fino a quota 147 (voto segreto a un emendamento all’articolo 35, che introduce l’equilibrio di genere tra gli eletti), assai lontano dalla maggioranza assoluta di 161 che servirà obbligatoriamente in seconda e ultima lettura. Ma quel giorno è ancora lontano. Intanto martedì prossimo ci sarà il voto finale di palazzo Madama per questo passaggio. Risultato scontato, più che altro sarà l’occasione per le proteste di un’opposizione ridotta a comparsa dalla gestione «casalinga» dell’aula da parte di Grasso (la Lega è già sull’Aventino, Forza Italia vorrebbe seguirla, i grillini daranno spettacolo). Grande atteso martedì è Giorgio Napolitano, già celebrato dalla ministra Boschi come il vero padre della riforma. Il senatore a vita dovrebbe esserci. A votare con lui ci saranno a quel punto anche Barani e D’Anna.
Ieri sera in chiusura di seduta la ministra Boschi ha comunicato il risultato della mediazione con la minoranza Pd sulla norma transitoria. L’emendamento del governo all’articolo 39 è scritto in maniera assai faticosa, dovendo scontare i vincoli della doppia lettura conforme: l’articolo 39 è inemendabile nelle sue parti principali. La modifica proposta dal governo prevede (o vorrebbe prevedere) che la legge quadro nazionale ispirata al compromesso nel Pd andrà approvata entro 60 giorni dalla promulgazione della riforma costituzionale, quindi prevedibilmente entro la primavera del 2017, in questa legislatura salvo sorprese. Da quella data le regioni avranno 90 giorni di tempo per scrivere le leggi elettorali che finalmente dovrebbero consegnare ai cittadini il potere di scegliere (indicare) i consiglieri-senatori.
Il compromesso unisce il Pd ma non garantisce il risultato. Dopo aver legato l’elezione dei senatori alle elezioni regionali – malgrado resti affidata ai consiglieri regionali secondo il complicato sistema dell’elezione «quasi diretta» – i nuovi costituenti si sono accorti della norma transitoria che stabilisce (articolo 39 comma uno) che i primi senatori, una volta entrata in vigore la riforma, saranno scelti con un voto di lista dai consiglieri regionali. In questo modo la sbandierata volontà popolare non avrebbe trovato spazio se non a partire dal successivo senato, nel 2023, o dalle prime elezioni regionali successive alla riforma, nel 2020. A meno di non sciogliere d’imperio e anticipatamente tutti i consigli regionali. Non potendolo fare, l’emendamento Boschi è uno specchietto per le allodole. Ammesso che riuscirà a costringere le regioni a scrivere quello che il governo vuole, resta il fatto che solo cinque regioni voteranno nella finestra compresa tra la prevista nuova legge elettorale e l’insediamento del nuovo parlamento nel 2018. Solo i cittadini di Valle d’Aosta, Lombardia, Friuli, Lazio e Molise forse proveranno l’ebbrezza di indicare i loro senatori. Tutte gli altri consigli regionali saranno rinnovati dopo la primavera 2018, dunque 72 dei primi senatori (su cento) non saranno indicati dai cittadini.
Per non farsi mancare nulla, il Pd ha anche presentato – a opera del senatore Ranucci – un ordine del giorno che impegna il governo a ridurre il numero delle regioni, da 20 a 12, «anche attraverso una speciale procedura di revisione costituzionale» (quanto speciale non è detto), con ciò certificando la continua rinuncia del parlamento all’iniziativa sulla Costituzione. Grasso ha ammesso l’ordine del giorno e il governo l’ha subito accolto, eliminando solo il riferimento a questa legislatura – perché lo zelante senatore renziano avrebbe voluto la riduzione immediata, appena introdotto il nuovo senato delle autonomie sulla base delle regioni esistenti. Anche qualche senatore democratico ha fatto notare l’assurdità, mentre 5 stelle e Sel protestavano. Il sì del governo però ha reso inutile la votazione. Un ordine del giorno in fondo vale poco, ma come ciliegina su questa torta costituzionale sta benissimo.
Il manifesto, 9 ottobre 2015