Si prende un attimo, Pierluigi Bersani, prima di rispondere, masticando i pensieri tra i denti come se rigirasse il suo sigaro invisibile. Poi, sorridendo: «C’è una grande tristezza». Sale le scale piano come se tutto quello che ha dentro e che avrebbe da dire, lo rallentasse. Un peso che gli si legge in faccia, l’amarezza di una sconfitta che sa di fine. Perché lo sa anche lui, che qualcosa oggi è finito. «Questa è un’altra cosa, un altro partito» mormora. Il Pd di cui è stato padre fondatore, la ditta. E lì, sull’uscio di un ufficio al secondo piano di Montecitorio, dice quello che forse pensa da tanto tempo: «Non è più la ditta che ho contribuito a costruire».
Non voterà la fiducia. Lo scrive su Facebook alle sette di sera. L’ha fatto tante volte, «diciassette, più di una volta al mese», ma questa volta no. Un annuncio che diventa una domanda rivolta a tutti i deputati che stanno con lui: che farete voi?
Due ore prima, sull’uscio di quell’ufficio, Bersani in cuor suo ha già deciso quando dice: «Ognuno deve assumersi le sue responsabilità». La responsabilità di dire no a questa legge elettorale, no al governo guidato dal Pd perché è il governo che ha scelto di legare il suo destino all’Italicum, no al premier-segretario del proprio partito. «Ma qui non stiamo parlando di Bersani contro Renzi, e neanche il governo c’entra niente precisa -. Qui è in gioco una cosuccia chiamata democrazia». Bersani si impunta, e per qualche secondo indurisce il suo sguardo, diventa severo quando risponde alla domanda se si aspettava che sarebbe finita così: «Sì, sì ribadisce – lo sapevo, ne ero sicuro, capito?». La cosa che gli ha fatto più male, racconta, tra tutte, è sempre la fiducia, imposta dal governo nonostante tutti gli appelli a non farlo: «Non c’era ragione di metterla, non su una questione così importante per la democrazia
». Un gesto di prepotenza? «Lui è di natura così, e non è una bella natura. Era nelle cose». Una sberla forte che Renzi ha dato come se fosse l’ultimo colpo alla vecchia guardia: «Ma io sberle me ne prendo quante ne vogliono, se serve
risponde . Il problema però non è per me, è per l’Italia. Le questioni democratiche non sono noccioline. E non è vero che agli italiani non gliene frega nulla dell’Italicum. Certo, se nessuno glielo spiega
tocca a noi far capire di cosa stiamo parlando. Comunque, se ne accorgeranno cosa significa questa legge
la demagogia in carrozza. Ve lo immaginate chiede cosa diventeranno le prossime elezioni? Il festival del populismo, la gara a chi la spara più grossa».
Ma quello si vedrà domani. E oggi? Resta da capire cosa succederà. In un partito dove convivono parti che non comunicano più tra di loro, con la scissione che aleggia sempre, come un passo che ancora nessuno ha il coraggio di compiere. Bersani può stare in un partito così, un partito che non sente più suo? La sua ultima risposta è una citazione di Dante, che dice tutto, e la pronuncia mentre chiude la porta: «Se io vado chi resta? Se io resto chi va?». (Chissà se l’ex leader del Pd ha pensato al fatto che questa frase, secondo il Boccaccio, il poeta la pronuncia quando il Comune di Firenze gli chiede di scendere come inviato presso il pontefice. Già allora: un fiorentino, a Roma).
La Stampa, 29 aprile 2015