Slavoj Žižek: ‘L’Isis cresce perché non c’è la sinistra’

18 Febbraio 2015

Se lo Stato Islamico ha successo è anche perché manca una vera sinistra, dice Slavoj Žižek e spiega il senso del suo pensiero in questa intervista con “l’Espresso”. Žižek, 65 anni, sloveno, filosofo e psicanalista, critico del modello neoliberista (propone un ritorno allo spirito del comunismo), è stato inserito da “Foreign policy” nel 2012 nell’elenco dei cento migliori pensatori del mondo. Benché si definisse “leninista” negli Anni Ottanta perse il lavoro nel suo Paese, la ex Jugoslavia in quanto considerato “non marxista”.

Se lo Stato Islamico ha successo è anche perché manca una vera sinistra, dice Slavoj Žižek e spiega il senso del suo pensiero in questa intervista con “l’Espresso”. Žižek, 65 anni, sloveno, filosofo e psicanalista, critico del modello neoliberista (propone un ritorno allo spirito del comunismo), è stato inserito da “Foreign policy” nel 2012 nell’elenco dei cento migliori pensatori del mondo. Benché si definisse “leninista” negli Anni Ottanta perse il lavoro nel suo Paese, la ex Jugoslavia in quanto considerato “non marxista”. Oggi è direttore del “Birkbeck Institute for the Umanities” di Londra e docente dell’ “European Graduate School”. Ha tenuto e tiene lezioni nelle più prestigiose università del globo.
Žižek, facciamo un passo indietro e torniamo ai giorni di Parigi che hanno sconvolto non solo la Francia ma tutta l’Europa. In un suo intervento pubblicato su “New Statesman” lei ha espresso solidarietà a “Charlie Hebdo”. Pensa che la reazione internazionale all’accaduto sia stata adeguata?
«Se pensiamo a tutto il pathos della solidarietà universale, che ha avuto il suo culmine nello spettacolo di domenica 11 gennaio, quando tutti i grandi nomi della politica internazionale hanno sfilato insieme prendendosi per mano – da Cameron a Lavrov, da Netanyahu ad Abbas – ecco: questa sarebbe l’immagine giusta se dovessimo raffigurare la falsità e l’ipocrisia. Nel vero stile Charlie Hebdo sarebbe stato appropriato pubblicare un’enorme vignetta che deridesse ferocemente e senza tatto alcuno questo avvenimento, con disegni di Netanyahu e Abbas, Lavrov e Cameron e di altre persone che si abbracciano e si baciano mentre gli uni alle spalle degli altri affilano le lame dei coltelli».
Lei ha detto che i terroristi musulmani sono una strana specie di fondamentalisti perché avvertono il bisogno di rispecchiarsi nella società occidentale. I veri fondamentalisti come gli Amish si limiterebbero a ignorare gli edonisti occidentali e le loro stupide vignette. E se davvero ci fosse dell’altro, e non il fondamentalismo, dietro questi terroristi? Crede che questo rappresenti da parte loro un disperato bisogno di trovare una causa trascendente, così rara in questo mondo post-ideologico?
«Le cose sono più ambigue ancora. Se si chiede a un anticomunista russo a quale tradizione siano da imputare le atrocità dello stalinismo si otterrebbero due risposte contrastanti. Alcuni considerano lo stalinismo (e il bolscevismo in genere) un capitolo della lunga storia russa della modernizzazione occidentale, tradizione che ebbe inizio con Pietro il Grande (o forse addirittura con Ivan il Terribile). Altri invece punterebbero il dito contro l’arretratezza russa, la lunga tradizione del dispotismo orientale che vi predominò a lungo. Di conseguenza, mentre per il primo gruppo i modernizzatori occidentali arrestarono e influirono violentemente sull’evolversi naturale della Russia tradizionale, sostituendo alla tradizione il terrore di Stato, per il secondo gruppo, invece, per la Russia la vera tragedia fu che la rivoluzione socialista scoppiò nel periodo e nel posto sbagliato, in un Paese arretrato che non aveva alcuna esperienza o tradizione democratica. Tutto ciò ricorda da vicino proprio il fondamentalismo islamico, che finora ha trovato la sua espressione più estrema nell’Isis».
E quindi, di che tipo di fenomeno si tratta?
«Ormai è diventato quasi un luogo comune far notare che l’ascesa dell’Isis è l’ultimo capitolo della lunga storia del risveglio anticoloniale (di fatto si stanno ridisegnando i confini arbitrari tracciati all’indomani della Prima guerra mondiale dalle grandi potenze), e al tempo stesso è un capitolo della lotta contro il modo col quale il capitalismo globale intacca il potere degli Stati nazione. A incutere paura e costernazione, tuttavia, è un’altra caratteristica del regime dell’Isis: le autorità dell’Isis dichiarano ufficialmente che compito principale del potere dello Stato non è occuparsi del welfare della popolazione (sanità, lotta alla fame). Ciò che più conta è la vita religiosa, che l’intera vita pubblica obbedisca alle leggi religiose. È per questo che l’Isis resta più o meno indifferente nei confronti di qualsiasi catastrofe umanitaria: il suo motto è “occupiamoci della religione, e il welfare verrà da sé”. È qui che è quanto mai evidente il grande divario tra il concetto di potere esercitato dall’Isis e quello esercitato dall’Occidente. Il secondo è il concetto di “bio-potere”, che regola la vita, mentre il califfato dell’Isis respinge integralmente questo concetto».
Tutto ciò rende l’Isis un semplice fenomeno pre-moderno, un disperato tentativo di riportare indietro le lancette del progresso storico?
«La resistenza al capitalismo globale non dovrebbe fare affidamento sulle tradizioni pre-moderne, sulla difesa delle loro particolari forme di vita, per il semplice motivo che un ritorno a esse è irrealizzabile, perché la globalizzazione in un certo senso è già una forma di resistenza a esse. Coloro che si oppongono alla globalizzazione in difesa delle tradizioni da essa minacciate lo fanno in una forma che è già moderna. Il contenuto di ciò che dicono potrà anche essere antico, ma la sua forma è ultra-moderna. Quindi, invece di considerare l’Isis una forma di resistenza estrema alla modernità, si dovrebbe considerarlo un caso di modernizzazione scellerata e si dovrebbe collocarlo nella serie delle modernizzazioni conservatrici iniziate con la Restaurazione Meiji in Giappone (un rapido piano di modernizzazione industriale che assunse la forma ideologica di “restaurazione”, di ritorno alla piena autorità dell’imperatore). La famosa foto di al-Baghdadi che porta al polso un prezioso orologio svizzero, è quanto mai emblematica da questo punto di vista: l’Isis è ben organizzato nella propaganda in rete, negli affari economici, anche se queste pratiche ultra-moderne sono utilizzate per diffondere e affermare una visione ideologico-politica che non è tanto conservatrice, quanto un disperato tentativo di fissare chiari limiti gerarchici, soprattutto tra coloro che regolamentano religione, istruzione, e sessualità (con un rigido e asimmetrico codice di diversificazione sessuale, il divieto di impartire un’istruzione laica, e così via…)».
Se a spiegare l’ascesa del radicalismo islamico è l’assenza di una sinistra laica, che cosa dovrebbe fare l’Occidente per risolvere il problema del terrorismo globale?
«È proprio questo il mio punto: non riusciremo a sconfiggerlo se restiamo nell’ambito delle coordinate liberal-democratiche. Soltanto una nuova sinistra radicale potrà riuscirci. Teniamo bene a mente la vecchia intuizione di Walter Benjamin quando disse che “ogni ascesa del fascismo è un fallimento della sinistra ma al tempo stesso reca testimonianza di una rivoluzione fallita”: è la dimostrazione che c’era un potenziale rivoluzionario da sfruttare, c’era un’insoddisfazione che la sinistra non è stata capace di mobilitare. Perché questo stesso principio non dovrebbe valere per il cosiddetto “islamo-fascismo” odierno? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse correlata con grande precisione alla scomparsa della sinistra laica nei Paesi musulmani? Nella primavera del 2009, quando i talebani conquistarono la valle dello Swat in Pakistan, il “New York Times” riferì che essi avevano architettato e attuato una “rivolta di classe che sfruttava le profonde crepe che si erano venute a creare tra un gruppetto di facoltosi possidenti terrieri e i loro vassalli senza terra”. Tuttavia, se “sfruttando” la piaga dei contadini i talebani stanno “facendo suonare l’allarme e richiamando l’attenzione sui rischi di un pericolo analogo in Pakistan, che continua a essere ancora oggi  in buona parte feudale, che cosa impedisce ai democratici liberali pachistani come pure statunitensi di “sfruttare” nello stesso modo questa preoccupazione, cercando di aiutare gli agricoltori senza terra? La triste implicazione di tutto ciò è che in Pakistan le forze feudali sono “alleate naturali” della democrazia liberale…».
E che ne è dei valori centrali del liberalismo, della libertà, dell’uguaglianza, e così via?
«Il paradosso è che da solo il liberalismo non è abbastanza forte per salvarli dalla mannaia dei fondamentalisti. Il fondamentalismo è una reazione – una reazione fasulla e mistificatrice, naturalmente – alla pecca reale del liberalismo, ed è per questo che continua a nascere da quello. Lasciato a sé, il liberalismo si farebbe del male, danneggerebbe soltanto sé stesso. L’unica cosa in grado di salvare i valori più importanti è una sinistra rinnovata. Affinché questo importante patrimonio di valori possa sopravvivere, il liberalismo necessita anche dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo: togliergli il terreno da sotto i piedi. Reagire alla carneficina di Parigi significa abbandonare una volta per tutte l’accondiscendente autocompiacimento dei liberali permissivi e ammettere che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo è in definitiva un falso conflitto, ovvero un circolo vizioso tra due poli che si generano reciprocamente e implicano a vicenda l’altro come scontato. Ciò che Max Horkheimer disse del fascismo e del capitalismo già negli anni Trenta (“Coloro che non intendono parlare del capitalismo criticamente dovrebbero astenersi dal parlare anche di fascismo”) dovrebbe valere anche per il fondamentalismo: “Coloro che non intendono parlare di democrazia liberale criticamente dovrebbero astenersi dal parlare anche di fondamentalismo religioso”».
Pensa di avere qualcosa in comune con Michel Hoeuellebecq e con la sua critica delle società liberali occidentali, collegata a un’assenza di giustificazione per le alternative reazionarie come quella islamista e quella russa?
«Sì, sicuramente. Per quanto folle possa sembrare, ho un grande rispetto per i conservatori liberali sinceri come Houellebecq, Finkielkraut o Sloterdijk in Germania. Da loro si può imparare molto di più che da un liberale progressista quale Habermas. I conservatori sinceri non hanno timore di ammettere che siamo arrivati a un punto morto. Secondo me il ritratto più devastante della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta è quello che Houellebecq ha fatto ne “Le particelle elementari”. In quel libro egli mostra come l’edonismo permissivo abbia trasformato in osceno l’universo del super-io obbligato a godere. Anche il suo anti-islamismo è più raffinato di quanto possa sembrare: Houellebecq è consapevole che il vero problema non è la minaccia islamica proveniente dall’esterno, ma dalla nostra stessa decadenza. Molto tempo fa Friedrich Nietzsche intuì che la civiltà occidentale si stava indirizzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, priva di grande passione o senso di responsabilità. Incapace di sognare, stanco della vita, questo Ultimo Uomo non corre rischi, ricerca soltanto comodità e sicurezza, vive di tolleranza verso gli altri. “Un po’ di veleno ogni tanto: questo per sogni piacevoli. E molto veleno alla fine, per una morte piacevole. Hanno i loro piccoli piaceri diurni, e i loro piccoli piaceri notturni, ma tengono in considerazione la salute”. “Abbiamo scoperto la felicità”, dicono gli Ultimi Uomini. E ammiccano».

L’autore Slawomir Sierakowski, polacco, è un columnist del New York Times (Traduzione di Anna Bissanti)
(Espresso)

 

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