Un’Italia libera e onesta è un’Italia affrancata dalle mafie

16 Giugno 2014

Un’Italia libera e onesta è anche se non soprattutto un’Italia affrancata dalle mafie. Cosa hanno visto le vittime della violenza mafiosa? Hanno visto la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e di violenza, l’esatto contrario di un’Italia libera e onesta e hanno cercato di cambiare questo stato di cose e per questo sono morti.

caselliUn’Italia libera e onesta è anche se non soprattutto un’Italia affrancata dalle mafie. Cosa hanno visto le vittime della violenza mafiosa? Hanno visto la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e di violenza, l’esatto contrario di un’Italia libera e onesta e hanno cercato di cambiare questo stato di cose e per questo sono morti. Anche perché chi avrebbe dovuto stare vicino a loro ha preferito lasciarli soli, preferendo arroccarsi nell’ipocrisia, preferendo accontentarsi di accomodamenti che rendevano più facile il quieto vivere.
Paradigmatica, emblematica è la storia su questo versante di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Col pool hanno inventato un metodo di lavoro vincente contro la mafia, così rendendo uno straordinario servizio al paese proprio nella direzione di un’Italia libera, onesta, affrancata dalle mafie. Ma invece di essere aiutati, sostenuti sono stati duramente, pesantemente contrastati soprattutto dal momento in cui, facendo il proprio dovere, hanno osato anche occuparsi di Ciancimino padre, dei cugini Salvo, dei Cavalieri del lavoro di Catania, cioè di quella zona grigia che è nemica giurata, antitesi, negazione di un’Italia libera e onesta. E su di loro si è scatenata una tempesta di calunnie, l’Italia disonesta è arrivata ad accusare loro di disonestà, per esempio imputando loro un uso distorto della giustizia a fini politici di parte. Falcone comunista, chiunque lo abbia conosciuto sa che tutto era meno che questo eppure, l’etichettatura fasulla per delegittimare il lavoro di qualcuno è un vecchio antico vizio niente affatto sradicato del nostro paese.
L’apice di questa campagna velenosa si è avuto quando la maggioranza del Consiglio superiore della Magistratura con una decisione inaspettata, assurda, vergognosa ha nominato a capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo non Giovanni Falcone ma un magistrato tutt’affatto digiuno di processi di mafia. Falcone è stato così umiliato – Borsellino dirà che ha cominciato a morire in quel momento – il pool vincente è stato distrutto, il metodo di lavoro vincente è stato azzerato. Poi la storia è precipitata, Falcone è stato costretto ad abbandonare la Sicilia, tutte le porte gli si chiudevano in faccia, e ha dovuto chiedere una sorta di asilo politico giudiziario a Roma al ministero e infine, purtroppo, tragicamente, le stragi e dopo le stragi finalmente i meriti di Falcone e Borsellino vengono riconosciuti. Falcone e Borsellino vengono anche mitizzati ma soltanto post mortem. I torti che hanno patito in vita sono stati cancellati, quelli della mia generazione stentano a ricordarseli e i giovani molte volte non ne sanno ancora abbastanza perché non hanno avuto ancora il tempo di leggere queste storie. Ma c’è di più, ogni tanto qualcuno strattona, strumentalizza Falcone, parlando bene di Falcone morto per colpire alcuni magistrati in vita considerati scomodi. Quante volte chi si è occupato per esempio del caso Andreotti o del caso Dell’Utri si è sentito dire “tu non applichi il metodo Falcone, tu non hai la cultura della prova, tu ragioni per teoremi, Falcone queste inchieste non le avrebbe mai fatte”. E di queste cose infinite volte ho discusso con un grande amico di LeG, Maurizio De Luca, un giornalista che è mancato poche settimane fa e che è giusto ricordare in questa piazza.
Ancora recentissimamente, il 23 maggio ultimo scorso, una voce autorevole, prestigiosa, quella di Marcelle Padovani, ha sostenuto pubblicamente che Falcone non avrebbe mai messo la sua firma in un’inchiesta come quella sulla Trattativa. Senza entrare nel merito – non ne ho né titolo né ruolo e non è questa la sede – dico solo che nessuno può arrogarsi il diritto di stabilire come Falcone si sarebbe comportato in questo o in quel processo di “oggi”. Non solo per una ragione tragicamente ovvia ed è che Falcone è morto ma soprattutto perché dopo le stragi del ’92 cambia tutto, comincia un mondo nuovo, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra mafia e politica, lo prova l’atteggiamento di Buscetta. A Falcone Buscetta aveva rifiutato di rivelare le tante tantissime cose che conosceva, proprio sul fronte mafia-politica, perché, diceva a Falcone, la prenderebbero per pazzo, e la sua inchiesta salterebbe subito. Ma dopo le stragi si sente obbligato, quasi condannato a saltare il fosso e a dire tutto quel che sa anche sui rapporti tra mafia e politica e così inizia un nuovo mondo che tragicamente, cupamente proprio Falcone ha aperto con il suo sacrificio insieme a Paolo Borsellino. Allora in questo nuovo mondo nessuno può sapere, anche solo ipotizzare come Falcone si sarebbe comportato, si comporterebbe. Abbiamo soltanto due certezze, che valgono quel che valgono, Falcone e Borsellino hanno scritto in una pagina di un’ordinanza sentenza del cosiddetto maxi-processo che è necessario voltare pagina ma per voltare pagina si devono scoperchiare i segreti dei collegamenti tra mafia e politica e l’altra certezza è che Falcone e Borsellino avevano la schiena dritta e quindi sicuramente non avrebbero mai per quieto vivere, per comodità anche professionale, privilegiato tra le tante opzioni possibili, quelle più comode e tranquille.
E oggi siamo qui a Modena proprio per parlare anche di riforma della Costituzione e la riforma della Costituzione comprende e ha in programma anche la riforma della giustizia e del CSM compresa la separazione delle carriere, e io scommetto che tra non molto sentiremo ripetere che Falcone era a favore della separazione delle carriere, l’abbiamo letto molte volte e sicuramente qualcuno ci tornerà, ma sarà di nuovo arbitrario evocare Falcone oggi, soprattutto in questo caso è semplicemente falso. Quando Falcone ha parlato del problema dei rapporti tra Pubblico Ministero e Magistrato giudicante lo ha fatto sì, ma il contesto chiaro, univoco delle cose che ha detto è nella direzione che l’argomento era quello della separazione delle funzioni, chi è Pubblico Ministero sia Pubblico Ministero, chi è Magistrato giudicante sia Magistrato giudicante e questa della separazione delle funzioni è oggi nel nostro ordinamento un dato acquisito, su cui non si può tornare a discutere. Altra diversissima cosa e di questo Falcone non ha mai parlato, al di là delle formule e delle apparenze, è la separazione delle carriere, cioè due concorsi, due CSM, due carriere completamente separate, diversificate. Ma la separazione delle carriere, tutti coloro che studiano questi argomenti lo sanno, significa in modo o nell’altro dipendenza del Pubblico Ministero dall’esecutivo, significa appannamento dell’indipendenza della Magistratura e tutto si può sostenere anche strumentalizzando, strattonando Falcone ma non che non non avesse a cuore l’indipendenza della magistratura, che non fosse un nemico irriducibile della dipendenza anche del Pubblico Ministero da qualunque autorità politica. Chiudo dicendo che secondo me l’insegnamento, la storia di Falcone e Borsellino si possono riassumere dicendo che per tendere ad un’Italia libera e onesta, affrancata dalle mafie occorre una presenza forte, significativa sulla questione delle mafie, senza quella passività di cui ha già parlato Stefano Rodotà. Presenza forte sulla questione mafia significa obbligo di denuncia chiara, non equivoca e sostegno a chi denuncia, in modo da rendere la denuncia ordinaria, normale, non eccezionale, non isolata. Presenza forte e questo profilo è già stato sottolineato molte volte oggi, significa che denuncia e prassi devono andare nella stessa identica direzione. Denunciare l’immoralità, denunciare il clientelismo e nello stesso tempo servirsene, equivale ad aiutare la mafia, la sua cultura, il suo potere. Così come significa aiutare la mafia lamentare la crisi della legalità ma poi praticare indifferenza e privatismo. Presenza forte sulla questione mafia significa progettare, nel senso pieno del termine, senza limitarsi ad inseguire questa o quell’altra emergenza, senza limitarsi a pronunciare condanne occasionali. E poi presenza forte significa che accanto alla repressione deve esserci, deve funzionare al massimo livello possibile la ricerca di una società più equa, più giusta nella distribuzione dei beni che faccia terra bruciata intorno ai mafiosi che altrimenti possono alimentare la bestemmia che la mafia dà lavoro, che la mafia può determinare consenso sociale. Solo così l’aspirazione a un’Italia libera e onesta potrà contare su prospettive concrete perché, anche questo è stato già detto, il futuro, il domani lo costruiamo oggi senza aspettare tempi migliori.

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