Merita chiarire subito: le riforme costituzionali e, segnatamente, il bicameralismo differenziato e la revisione del titolo V s’hanno da fare presto e bene. Di più: mai come oggi esse sono alla nostra portata dopo decenni di chiacchiere inconcludenti. Ancora: saggiamente ora ci si accinge a farlo nel pieno rispetto delle procedure stabilite dall’art. 138, avendo abbandonato l’infelice idea di derogarvi, adottando un percorso di incerta legittimità costituzionale e, come poi si è dimostrato, paradossalmente più complicato, farraginoso e… sterile. Infine, sono convinto che, dopo un tempo di inutili e opposti irrigidimenti, vi siano le condizioni per varare una buona riforma del Senato quale Camera delle regioni e delle autonomie. Ciò detto, giova tornare al discorso sul metodo. Se ne può ricavare una lezione per oggi e per domani. Il metodo non è indifferente rispetto ai contenuti e alla loro qualità. In tema di Costituzione il metodo è un corollario dell’idea di Costituzione cui ci si ispira. Chi la intende come patto di convivenza, come legge fondamentale (espressione cara ai tedeschi), come tavola dei principi, dei diritti e delle regole che presiedono alla vita della comunità politica, non può che ricavarne qualche nota di metodo quando ci mette mano.
Primo: la conoscenza e, di riflesso, la competenza su materia di natura sua complessa, non priva di una tecnicalità da rispettare e padroneggiare. Se ci si fosse ispirati da subito a tale criterio ci saremmo risparmiati incomprensioni e conflitti. Sarebbe bastato interpellare gli studiosi più accreditati per non incappare in errori marchiani del tipo dei 21 senatori di nomina presidenziale, di una sovrarappresentanza dei sindaci, di un Senato ove Lombardia e Molise avessero lo stesso peso. Certo, a tal fine, non ha giovato la polemica con i “professoroni”. Nè ha giovato il mantra un po’ qualunquistico secondo il quale ai cittadini nulla importa dei “dettagli” enfatizzati dai politici che hanno mosso critiche. Chi sta in parlamento è sì un cittadino, ma con qualche responsabilità in più, specie su materia costituzionale.
Secondo: la natura sistemica delle riforme costituzionali. Esemplare il caso delle Province. Comprendo l’esigenza di trasmettere subito un messaggio di sobrietà e di razionalizzazione, ma l’idea di riformare le Province a Costituzione vigente è una sorta di acrobazia istituzionale. Essa riflette un altro limite di approccio e di metodo: quello di iscrivere l’arduo e complesso compito di riformare lo Stato sotto la voce “riduzione dei costi”. Che è certo un problema, ma non il problema cui tutto sacrificare. Vale anche per l’ossessione sull’indennità dei senatori.
Terzo e soprattutto: la confusione tra prerogative del governo e compiti del parlamento. Quella costituzionale è competenza schiettamente parlamentare. Il governo può stimolare e accompagnare, non sostituirsi alle assemblee elettive. Proprio perché la Costituzione è patrimonio comune e s’ha da discuterne con tutti. Non è con questo argomento che Renzi ha motivato l’intesa con Berlusconi in risposta ai suoi critici?
Quarto. Sulla scorta delle suddette premesse, sarebbe utile invece non abusare di due argomenti invocati in verità da taluni renziani oltranzisti più che dallo stesso Renzi: l’investitura delle primarie PD e la disciplina di partito e di gruppo. Fu lo stesso Renzi a riconoscere onestamente il carattere generale (generico) del mandato conferitogli dalle primarie di partito: quello di dare a un nuovo leader PD un’estrema chance (“proviamo anche questo”, tradusse lui stesso). È una oggettiva forzatura attribuire a quel voto (di partito) il senso di uno specifico mandato a una specifica riforma costituzionale. Così pure sorprende leggere il richiamo alla disciplina di partito di parlamentari libertari come Giachetti e Scalfarotto. È a dir poco discutibile e persino vagamente clericale la loro tesi secondo la quale, non essendo la revisione costituzionale materia assimilabile alla bioetica, su di essa non sarebbe autorizzata la libertà dei singoli parlamentari, ma si imporrebbe uno stretto vincolo disciplinare di partito. Conosco e riconosco il valore della solidarietà di partito e gli impegni conseguenti ad adoperarsi per propiziare comportamenti unitari, ma, in punto di principio, su materia costituzionale si potrebbe argomentare la tesi opposta a quella degli improvvisati oltranzisti: e cioè che i principi laicamente non negoziabili sono semmai quelli scolpiti in Costituzione e che dunque non è affatto sicuro che su di essi si possa esigere un vincolo disciplinare che invece non varrebbe sulle questioni cosiddette eticamente sensibili. Una bella disputa, che qui non posso svolgere, ma che suggerirebbe una qualche cautela ai pretoriani del premier che non gli rendono un buon servizio.