Il vizio nefasto di difendere gli evasori

23 Aprile 2014

Decine di milioni di italiani che faticano a giungere alla fine del mese, si sono rallegrati all’idea che lo stipendio dell’AD delle ferrovie dello stato, Mauro Moretti (peraltro già passato a miglior retribuzione), potesse ridursi da 850.000 euro a 239.000. La loro indignazione verso cifre che sono incommensurabili alle loro è più che comprensibile, molto meno lo è la demagogia di chi la cavalca con spregiudicatezza.

evasioneL’impeto riformista del Presidente Renzi, quando non è rivolto alla distruzione delle nostre istituzioni, merita una più serena analisi. Gli ottanta euro che arricchiranno la magra busta paga di milioni di cittadini, al di là dell’intento elettorale tanto innegabile quanto legittimo, perseguono la lodevole finalità di ridurre le sperequazioni retributive e redistribuire la ricchezza. La condivisibile finalità non mi esime da alcuni rilievi critici che spero non mi facciano classificare con superficiale arroganza fra i gufi o i rosiconi.
Lasciando volentieri agli economisti il problema delle coperture economiche incerte o irripetibili negli anni a venire, mi interessa analizzare il significato di una frase con cui Renzi ha commentato il provvedimento accompagnandolo all’introduzione di un limite agli emolumenti dei manager di stato: “Con questa operazione ora inizia a pagare chi non ha mai pagato e a riscuotere chi non ha mai riscosso”.
Questa asserzione nel suo rudimentale schematismo, divide gli italiani fra buoni e cattivi, sfruttati e sfruttatori, identificando i profittatori in tutti coloro che lucrano un ricco stipendio dalle finanze pubbliche negando a priori la possibilità che possano averlo meritato. Decine di milioni di italiani che faticano a giungere alla fine del mese, si sono rallegrati all’idea che lo stipendio dell’AD delle ferrovie dello stato, Mauro Moretti (peraltro già passato a miglior retribuzione), potesse ridursi da 850.000 euro a 239.000. La loro indignazione verso cifre che sono incommensurabili alle loro è più che comprensibile, molto meno lo è la demagogia di chi la cavalca con spregiudicatezza.
In Italia, infatti, ci sono 109 banchieri che hanno uno stipendio superiore al milione di euro. Vale a dire che un milione è la credenziale minima per accedere all’esclusivo club. Il differenziale fra i loro stipendi e quelli dei loro dipendenti non si giustifica in nessun modo, men che meno con i risultati fallimentari ottenuti. Come non si giustifica il differenziale tra lo stipendio di molti top manager sia pubblici che privati e i loro dipendenti. Secondo alcuni calcoli Marchionne, che risiede in Svizzera e non paga le tasse in Italia, avrebbe guadagnato quanto in un anno guadagnano 6400 metalmeccanici. Il condizionale è d’obbligo perché la quota di gran lunga maggiore della sua retribuzione è dovuta alle stock option la cui rendita varia in funzione del momento in cui sono esercitate sul mercato azionario e che, avendo un regime fiscale privilegiato, non ci permettono nemmeno di considerare che il suo reddito sia al lordo dell’aliquota IRPEF del 43% alla quale era invece assoggettato lo stipendio di Moretti. Mentre, dunque, si sacrificano come capri espiatori i manager di stato, si lasciano intatte le enormi sperequazioni che avvelenano il nostro sistema retributivo e tutte le tecniche elusive che proteggono i grandi capitali. Qualcuno dirà: “Ma quelli di Moretti sono soldi nostri! Soldi che lo stato prende dalle nostre tasche. Gli altri sono frutto di accordi privati su cui non possiamo interloquire”. Argomento tanto diffuso quanto sciocco. I soldi sono sempre i nostri. Nostri i soldi con cui acquistiamo il biglietto del treno, ma nostri anche i soldi che depositiamo in banca, nostri i soldi investiti nelle pubblicità commerciali dei prodotti che compriamo, nostri i soldi che arricchiscono le rockstar, i divi della TV e gli idoli degli stadi, ancora nostri i soldi che fanno prosperare gli studi professionali. Cambiano solo i canali collettori. Se, dunque, il problema è quello di ridurre sperequazioni che giudichiamo eccessive e di redistribuire più equamente la ricchezza per rendere più armonica e meno stridente la convivenza sociale, la risposta è contenuta nell’articolo 53 della nostra bistrattata Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
E proprio nel criterio di progressività vi è quel meccanismo regolatore di cui abbiamo bisogno, imparziale ed efficace erga omnes (a patto che si puniscano in modo esemplare gli evasori). Negli USA, che noi consideriamo il tempio del liberismo, il new deal rooseveltiano (che portò il paese fuori dalla depressione del 1929 creando quella “middle class” che fu il motore del successivo miracolo economico) innalzò l’aliquota massima dell’imposta sul reddito al 79%. Ma ancor di più fece Eisenhower durante la guerra fredda negli anni ‘50. L’aliquota arrivò al 91% (Paul Krugman, La coscienza di un liberal, Laterza, pag. 45). Non sfuggirà che simile aliquota, che colpiva redditi altissimi, affermava implicitamente il dovere etico di porre un limite alla ricchezza. Limite oltre il quale diviene immorale. Così come noi considerammo immorali i latifondi quando la ricchezza si misurava con la proprietà terriera e la miseria con il bracciantato agricolo. Così come considerammo immorale lo sfarzo dei palazzi nobiliari quando le suburre esalavano le loro maleodoranti miserie. Oggi che la ricchezza ha l’impalpabilità della finanza, questi vecchi principi suonano come rivoluzionari. Ma, mentre la propaganda contro i manager di stato che vellica i peggiori umori e i sentimenti più livorosi porta voti, agire sulla leva fiscale (a saldo neutro) per redistribuire la ricchezza è praticamente impossibile in un paese che per vent’anni ha criminalizzato l’imposta sul reddito fino a elevare al rango di padre costituente un frodatore fiscale. Se qualcuno avesse finalmente il coraggio di rompere questo conformismo, la stragrande maggioranza degli italiani capirebbe di aver difeso con il proprio sacrificio l’interesse di un’esigua e pingue minoranza.

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