Ma le Costituzioni vivono nella storia

08 Luglio 2014

Domandiamoci, piuttosto, perché la storica vittoria referendaria (2006) sia stata abbandonata all’oblio, quasi disconosciuta dal PD, permettendo prima a Berlusconi di far credere che le sue insufficienze governative dipendessero da una complessiva inefficienza del sistema e poi a Renzi di tentare uno stravolgimento dei poteri politici che cancellerà ogni equilibrio tra i diversi istituti.

Salviamo la Costituzione 25-04-05Chi si oppone meritoriamente alla sciagurata riforma costituzionale in fieri non manca mai di premettere di essere assolutamente favorevole a un processo riformista al quale, semmai, intende dare un contributo costruttivo. Questa premessa dimostra che nemmeno costoro si son mondati dal peccato originale che grava sul dibattito in atto: l’idea, cioè, che la nostra Costituzione sia un ferrovecchio ormai inutile se non addirittura dannoso, come ripetono ossessivamente i devoti sediari renziani argomentando che quanto stanno facendo è ciò che i loro predecessori hanno inutilmente tentato di fare da trent’anni. Infatti, dal 1979 a oggi si è fatto un gran dibattere di riforme costituzionali, con un profluvio di proposte che hanno attraversato ben tre commissioni bicamerali. Punto di arrivo di quell’annoso dibattito fu la radicale riforma varata nella XIV legislatura dalla maggioranza di centrodestra e fortunatamente respinta dal referendum confirmativo. Quegli eventi avrebbero dovuto imporre al PD una riflessione critica sugli errori concettuali che hanno guidato quella riforma e su come quel lungo dibattito abbia contribuito alla loro genesi. L’errore capitale fu nel ritenere che problematiche politiche potessero trovare soluzione in meccanismi istituzionali, ovvero che una buona pratica politica fosse automatica conseguenza di una buona ingegneria istituzionale. Una democrazia, in realtà, vive in funzione della cultura che la incarna e i differenti modelli istituzionali (buoni o meno buoni che siano) funzionano solo se interpretano principi e valori preesistenti nelle culture che li generano. La storia, anche recente, ci dimostra come la democrazia non sia un bene esportabile. L’estraneità culturale, infatti, ne ha determinato il fallimento ovunque sia stata “importata” senza un’adeguata metabolizzazione. Le Costituzioni vivono nella storia, nella tradizione, nella cultura e nel sentimento dei popoli. Al di fuori di quel contesto, da cui traggono vitalità e vigore, sono sterili esercizi accademici. Sicché, l’aver troppo a lungo descritto la nostra Costituzione Repubblicana come un arnese vetusto e bisognoso di una radicale palingenesi sulla quale fondare un rinnovamento della politica, ha determinato una pericolosa svalutazione dei valori e dei principi fondanti della liberal-democrazia in essa affermati, invalidando il faticoso cammino storico e culturale compiuto dal dopoguerra a oggi e dimostrando quanto quei principi fossero ancora di incerto dominio nella nostra giovane cultura democratica. Gli zelanti e immaginifici riformisti sono soliti ammirare, non senza ragione, le democrazie anglosassoni alle quali spesso dichiarano di ispirarsi. Ebbene: pensano davvero che l’istituto della Corona britannica e la Camera dei Lord siano “moderni”? Sanno che gli istituti politici statunitensi sono ancora quelli definiti nella costituzione del 1787? E come qualificano un sistema elettorale come quello statunitense che, eleggendo non il Presidente ma i suoi grandi elettori, ha permesso nel 2000 a Bush di essere eletto con 500.000 voti in meno di quelli presi da Al Gore? Eppure nessuno invoca palingenesi perché l’efficacia di quelle democrazie è direttamente proporzionale al lungo periodo di assimilazione culturale di cui hanno goduto. Un valore cardinale e tragicamente ignorato in tutto il dibattito sulle riforme è, infatti, quello della continuità istituzionale da cui discende la loro autorevolezza e ne deriva la loro intangibilità. La via da scegliere pertanto, ben lontana da un immobilismo conservatore, sarebbe quella della “manutenzione costituzionale” , cioè del progressivo perfezionamento e adeguamento dei singoli istituti costituzionali alle mutate esigenze della società italiana ed europea nella salvaguardia della continuità storica, culturale e ideale degli stessi. Si tratta della via che è stata ed è seguita nelle principali esperienze costituzionali liberal-democratiche, come dimostra anche una prospettiva diacronica di lungo periodo: dall’esempio paradigmatico dei trentasette emendamenti che dal 1791 a oggi hanno arricchito (e mai stravolto) l’originario impianto della Costituzione statunitense, all’opera di continuo affinamento delle costituzioni europee nel secondo dopoguerra, fino alla circospezione con cui nel Regno Unito si procede alla riforma di un istituto certamente anacronistico come la Camera dei Lord. L’esito referendario avrebbe dovuto obbligare a questa via anche l’Italia. Gli italiani, infatti, hanno rifiutato la riforma approntata dal centrodestra, confermando l’attuale impianto costituzionale e nessuno dovrebbe oggi indossare abusivamente e arrogantemente i panni del costituzionalista proponendo riforme organiche dell’architettura istituzionale. Domandiamoci, piuttosto, perché la storica vittoria referendaria sia stata abbandonata all’oblio, quasi disconosciuta dal PD, permettendo prima a Berlusconi di far credere che le sue insufficienze governative dipendessero da una complessiva inefficienza del sistema e poi a Renzi di tentare uno stravolgimento dei poteri politici che cancellerà ogni equilibrio tra i diversi istituti. Il dovere di chi si oppone allo sciagurato progetto dovrebbe essere quello di smascherare l’inganno di chi vuole scaricare sulle istituzioni le colpe della politica e di chi vuole distorcere i fondamenti della democrazia rappresentativa, facendosi paladino dei principi costituzionali e dichiarandosi disponibile a ragionare soltanto su singole e parziali riforme, nello spirito dell’articolo 138. Riforme atte a ottimizzare l’impianto istituzionale vigente e utili a rimarcare la funzione ideale di ogni specifico istituto per permettere ai principi che sottendono la Costituzione di sedimentare nella storia e nella cultura della nazione. Alla fine, questa sarebbe la vera riforma.

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