Riforme: show e povertà politica

07 Aprile 2014

Qualsiasi critica si avanzi nei confronti di Renzi e del suo scriteriato riformismo istituzionale, anche la più articolata e argomentata, s’infrange sul radicato convincimento dei suoi sostenitori che il cambiamento, qualunque cambiamento, sia meglio della palude nella quale l’Italia è da anni impantanata.
Leggi anche Valentino Larcinese su lavoce.info .

renziQualsiasi critica si avanzi nei confronti di Renzi e del suo scriteriato riformismo istituzionale, anche la più articolata e argomentata, s’infrange sul radicato convincimento dei suoi sostenitori che il cambiamento, qualunque cambiamento, sia meglio della palude nella quale l’Italia è da anni impantanata.
A rendere inoppugnabile il loro punto di vista è il crescente consenso che il Presidente del Consiglio raccoglie nei sondaggi che mai come oggi sono stati così immediatamente riscontrabili anche nelle cosiddette chiacchere da bar. Ciò che più stupisce è la trasversalità del consenso che, pur escludendo parte degli storici sostenitori della sinistra, ingloba una parte importante di elettorato che guarda a Renzi con inusitato entusiasmo confessando a chiare lettere di non aver mai votato a sinistra. L’immagine di un cambiamento radicale, sfrontato e irriverente è vincente.
Criticarne il massimalismo, la precipitazione e l’azzardo è perdente e prefigurarne i possibili danni una fatica di Sisifo. Invero, saper aggregare il consenso in un momento di crisi ideologica e di smarrimento politico quale l’attuale sarebbe positivo se quel consenso potesse essere volto a una rinnovata coesione sociale e a un’efficace progettualità politica. Chi non se ne sentisse parte dovrebbe rassegnarsi a un ruolo minoritario com’è nella logica delle democrazie se non fosse evidente la fragilità delle basi su cui poggia quel consenso, le cui parole d’ordine, governabilità, riforme e cambiamento, sono vuoti luoghi comuni. Un mantra esorcistico con cui mistificare la realtà. La governabilità, a parte il fragile e fugace governo Prodi del 2006, è stata ampiamente assicurata in tutte le legislature della cosiddetta seconda repubblica, ma non ha certo dato i frutti che da lei acriticamente ci si attende. Un governo con una leadership forte e una solida maggioranza parlamentare non significano nulla se mancano capacità d’analisi e strategia politica. Berlusconi docet. Fu proprio il suo governo, forte della più ampia maggioranza parlamentare e della piena legittimazione della leadership, a precipitarci nella drammatica crisi che stiamo vivendo e che oggi, in modo miope, si tende ad attribuire ai governi di larghe intese che ne sono stati la conseguenza e non la causa. A riprova della fallacia dell’argomento vale notare che nonostante non vi sia un solo italiano che non sia stato convinto della necessità che il sistema elettorale debba identificare con certezza un vincitore, così non è né in Germania né in Inghilterra.
Negli stati europei meno colpiti dalla crisi, infatti, vi sono governi di coalizione nati in Parlamento dopo che le elezioni, pur nettamente vinte dai conservatori di David Cameron e dai cristiano-democratici di Angela Merkel, non avevano loro assegnato la maggioranza assoluta dei seggi. Evidentemente la governabilità discende dalla capacità politica, non dall’assetto istituzionale. Anche il martellante ritornello sulle irrinunciabili riforme per cambiare un sistema sclerotico e immobile è del tutto privo di un’analisi critica. Di riforme, nonostante la stereotipata vulgata che le vorrebbe mancanti da vent’anni, se ne sono fatte in abbondanza.
Andando a memoria, il sistema pensionistico è stato riformato da Amato, Dini, Maroni, Fornero. Il mercato del lavoro da Treu, Maroni e ancora Fornero. Su scuola e università non c’è stato ministro da Berlinguer a Profumo passando per la Moratti e la Gelmini che non si sia intitolato una riforma. Il sistema fiscale fa ormai fatica a trovare nuovi acronimi per definire tasse continuamente cangianti e non vi è governo che non abbia fatto tagli di spesa, verticali, orizzontali o trasversali che fossero. La Costituzione, ahimè, è stata più volte modificata (sempre andando a memoria: collegi esteri, giusto processo, federalismo, vincolo di bilancio, parità di genere) e solo la saggezza referendaria del popolo ha impedito che fosse sfigurata nella devolution di Calderoli.
In campagna elettorale Berlusconi si accreditava il merito di aver cambiato l’Italia con 40 riforme che elencava pedantemente nei suoi opuscoli celebrativi e il porcellum stesso è figlio del suo malinteso riformismo. Varrebbe pertanto la pena di cassare la parola “riforme” dal dibattito politico per parlare solo di cosa e (soprattutto) come si vuole davvero cambiare. Fino ad ora però, l’unico progetto dettagliatamente esibito dall’Italia che “cambia verso” sono le riforme istituzionali. Al di là del valore simbolico inteso ad appagare il diffuso sentimento antipolitico, nessuno può davvero credere che senza province e Senato l’Italia risorgerà d’incanto. Il dubbio, pertanto, è che tanta ostinazione e intransigenza nel difendere il pastrocchio Del Rio-Boschi-Renzi-Verdini-Berlusconi sia dovuta alla necessità di accreditare la vis riformista del governo su un terreno di grande resa spettacolare, nell’impossibilità o nell’incapacità di promuovere quelle innovazioni sul terreno della legalità, dell’etica pubblica, della trasparenza e dell’equità sociale che sarebbero necessarie.

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