Con La grande bellezza agli Oscar siamo applauditi, ma con «la grande ipocrisia» siamo imbattibili: tutti a impallinare il neosottosegretario alle Infrastrutture, senatore Gentile, al quale il direttore de l’Ora della Calabria aveva ricondotto le pressioni intermediate dallo stampatore del quotidiano per bloccare la pubblicazione di una notizia sul figlio indagato del senatore calabrese.
Giustissimo, ma Gentile non si è nominato da solo. E, soprattutto, la storia delle pressioni sulla stampa nell’interesse del senatore che ieri ha però affermato di non averle mai chieste, non è stata una sorpresa sfortunatamente appresa dal premier dopo la nomina: era invece stata già da giorni ampiamente trattata sulle prime pagine dei giornali. Anzi, se si riascolta l’audio della telefonata pubblicato sul sito del giornale calabrese, la pressione sul direttore era motivata dallo stampatore del quotidiano proprio con la necessità di non rovinare l’immagine di Gentile nel momento in cui lo si sapeva appunto in corsa per un posto da sottosegretario. Ecco perché questa nomina, che oggettivamente ha premiato una pressione sul giornale anziché sanzionarla con il discredito reputazionale, più ancora di Gentile interpella il presidente del Consiglio, il cui frequente «ci metto io la faccia» mal si concilia ora con la goffa giustificazione da Prima Repubblica, per cui la nomina sarebbe stata frutto di una non rifiutabile indicazione del socio di maggioranza governativa Alfano, che di Gentile è il capopartito e lo sponsor. Tutto e il contrario di tutto, senza una rivisitazione critica o una condivisione argomentata, possono stare insieme solo e proprio perché la grande ipocrisia è l’unica cecità che permette di non voler vedere il vero nodo: e cioè l’assenza nel premier, almeno sinora, di una idea di giustizia che non si riduca all’aneddotica estemporanea sugli arresti da cambiare quando viene assolto un top manager che conosce o sui nuovi reati stradali da inventare quando emoziona la tragedia di un ragazzo investito; e che non si esaurisca nella promessa di intestarsi l’ultimo segmento di percorsi, come l’introduzione del reato di auto riciclaggio, in realtà ormai da tempo avviati perché dettati dall’Europa e elaborati già in dettaglio da tre apposite commissioni.
È di questa assenza di una idea di giustizia che «parlano» certe nomine, alle quali peraltro il neoministro pd Orlando pare assistere con imbarazzo. A parole, ad esempio, il correntismo togato è unanimemente bollato come un morbo della magistratura, eppure il governo Renzi conferma Cosimo Ferri sottosegretario alla Giustizia, cioè proprio il magistrato proverbialmente leader di una delle più forti correnti, all’interno della quale sta crescendo il mal di pancia appunto per la commistione tra corrente come espressione culturale e corrente come veicolo politico. Tra ciò che sulla giustizia ha operato Berlusconi e ciò che in questi 20 anni hanno opposto i suoi contraddittori, Renzi fa pari e patta con la sbrigativa espressione «basta con i derby ideologici, tanto nessuno cambierebbe idea»: poi però nomina un altro sottosegretario alla Giustizia in Enrico Costa, parlamentare che legittimamente è stato tra i massimi pasdaràn di una delle due fazioni asseritamente in derby, quella degli ultraberlusconiani (oggi neoalfaniani) in prima fila nelle leggi ad personam, contro una imprescindibile riforma dello scandalo di 130.000 prescrizioni l’anno, a favore di stringenti limiti alle intercettazioni, e all’attacco della giurisdizione se si esprime in processi sgraditi. Passa così quasi in secondo piano che, appena insediato e a dispetto dei propositi, nel governo una sola mano già cominci a non bastare più per contare gli indagati tra ministri e sottosegretari: si può in teoria ritenere che sia un problema, si può motivare invece che non lo sia mai, o a quali condizioni non lo sia, e sarebbero tutte posizioni legittime se argomentate e rivendicate. Ma il punto è che questo governo non si sa cosa pensi.
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