La chiameremo, probabilmente, Democrazia 3.0. Servirà per distinguerla da quella digitale sperimentata finora, sotto le insegne di Grillo o dei Pirati svedesi e tedeschi, cioè la 2.0; nonché, naturalmente, dalla 1.0 cui ci hanno abituato i partiti tradizionali. Che cosa sarà hanno cercato di stabilirlo in cinque giorni di dibattiti, performance, mostre e conferenze i protagonisti della Biennale Democrazia di Torino, dove il tema generale dell’utopia possibile e realizzabile ha finito col mescolarsi all’altro, concreto, della partecipazione politica dal basso — quella vagheggiata tanti anni fa da Giorgio Gaber — e che oggi sembra l’unica ricetta in grado di salvarci dalla bancarotta.
Ma come sarà, questa benedetta ricetta 3.0? A grandi linee, una combinazione, sperabilmente «virtuosa», delle prime due. E anzitutto, secondo il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky che presiede la Biennale, un modo per scongiurare l’affollarsi attorno al web di «atomi solitari» incapaci di dialogare tra loro, restituendo invece il giusto spazio e valore alle associazioni, i comitati, i partiti disposti ad aprirsi alla società, senza perdere di vista il modello di Kelsen, che prevede capacità di sintesi e disponibilità al compromesso.
E poi, se Democrazia 3.0 avrà da essere, essa si affermerà evitando i pericoli sempre più evidenti nel modello corrente di democrazia elettronica.
Qui, davvero, gli ammonimenti e i rischi sembrano moltiplicarsi. Soprattutto riguardo al ruolo del giornalismo, minacciato nel suo rapporto di mediatore fra i cittadini e i luoghi del potere. Si va dal direttore della «Stampa» Mario Calabresi, che si interroga «sul valore di un dialogo diretto fra politico e cittadino privo di strumenti per interrogarlo», a Paolo Mieli disposto ad ammettere il ritardo con cui la stampa ha saputo rispondere alla sfida digitale. Sino a Ferruccio de Bortoli che si è posto il problema della gratuità della Rete, del rischio di un suo «scadere nell’assemblearismo», della «leggerezza irresponsabile» che sembra dilagare tra i suoi utenti. Preoccupazioni espresse all’incontro di ieri, con Juan Carlos De Martin e Stefano Rodotà, sul tema «Internet è un diritto fondamentale?».
Ma è nel più ampio svolgersi della Biennale che i limiti e rischi della Democrazia 2.0 sono emersi con particolare evidenza. La politologa Nadia Urbinati, ad esempio, ha messo in guardia contro «l’immediatezza della politica elettronica, che è l’opposto della democrazia» (e qui non è mancato il richiamo classico a Pericle e alla sua idea di una democrazia che prende le decisioni soltanto dopo lunghe discussioni, a differenza della dittatura). Il filosofo Roberto Casati, esperto di scienze cognitive, ha messo in rilievo come i dibattiti accessibili a tutti, via streaming, rischino di cancellare l’inventiva, la creatività informale delle persone, la ricerca del compromesso tipica degli incontri a porte chiuse, trasformando ogni rapporto personale in una «tribuna politica». Senza contare, secondo il punto di vista di Juan Carlos De Martin, studioso delle tecniche digitali, che l’universo 2.0 continua a includere appena la metà dei cittadini, lasciando dunque ai margini della partecipazione le fasce deboli e anziane e rappresentando in modo esagerato le minoranze attive, organizzate e fortemente ideologiche. E non è tutto: se prevalesse l’idea «grillina» dell’obbligo di mandato per chi è scelto con plebiscito digitale — lo ha ricordato de Bortoli — verrebbe a cadere di fatto la responsabilità politica degli eletti, ridotti a semplici esecutori di una qualche «volontà generale» e irrimediabilmente lontani da qualsiasi idea di bene comune.
C’è di che preoccuparsi, insomma, ma per fortuna non mancano anche gli spiragli di speranza. Esistono casi clamorosi come quello islandese, ad esempio, illustrato a Torino dalla filosofa Salvör Nordal, che ha presieduto nel suo Paese il consiglio popolare dove è stata elaborata, partendo dai suggerimenti «dal basso», la bozza della nuova Costituzione. O ci si può rifare agli esempi di Ecuador e Bolivia, dove è riuscito l’inserimento nelle Carte fondamentali dei riferimenti alle culture e tradizioni indigene — incluso quello ai «diritti della Madre terra» — mescolando partecipazione digitale a eredità millenarie. All’orizzonte si spalancano nuove vie che conducono verso la «democrazia continua» — per usare un’espressione di Stefano Rodotà — che includono i «bilanci partecipativi», i «sondaggi deliberativi», i referendum propositivi, oltre naturalmente alle elezioni primarie che per fortuna stanno prendendo piede stabilmente nella nostra vita politica.
Sarà che, in tempi di crisi, come è stato detto da molti, si fa più forte il bisogno di utopia, richiamato direttamente dal titolo della Biennale 2013, «Utopico. Possibile?». Ne è un esempio Stefano Rodotà che si spinge a proporre di trasformare l’accesso a Internet in diritto garantito «senza distinzioni» dall’articolo 21 della Costituzione. E in generale lo conferma quella prospettiva di utopia concreta, fattiva e addirittura «realistica» — come l’ha definita l’accademico dei Lincei Carlo Ossola — che si ispira al Principe di Machiavelli: «Puntare la freccia più in alto del bersaglio, per poterne colpire il centro sfruttando le leggi immutabili della fisica».
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