La felicità del pensiero

10 Aprile 2013

Ecco perché abbiamo smarrito il più grande bene della vita, la riflessione. Anticipiamo l’intervento di Gustavo Zagrebelsky a Biennale Democrazia, da oggi al 14 aprile al via a Torino.

GLI antichi, con perfetta ragione, affermavano che la felicità è il compimento di ciò che è “per sua natura”, cioè è la realizzazione di ciò cui la natura aspira. Possiamo, allora, dire che nelle idee noi troviamo la felicità, per la parte di noi che riguarda la mente. n uno dei primi trattati sulla felicità – il dialogo di Senofonte “Gerone, o della tirannide” – il poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.) tratta dei beni che danno felicità, quando li si possiede, e infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali trovano i loro beni con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, forse perché attutisce le sensazioni. Conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nei grandi progetti, nel superfluo in abbondanza, in cavalli d’ineguagliabile velocità, in armi belle e potenti, in gioielli per le proprie amanti, in dimore magnifiche e molta servitù, nella sopraffazione dei nemici, nell’ammirazione della gente. Ancora: ci sono persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili e con la natura.
Negli elenchi di quelli che consideriamo i beni della vita, non troviamo le idee. Eppure, la grande maestra che è la lingua non ci dice qualcosa di diverso, quando parla di “poveri o ricchi d’idee”? Poveri e ricchi non solo nel senso della quantità, ma anche dell’accrescimento esistenziale: noi non diremmo poveri o ricchi di ferite, di malanni, di mali, ecc.; ma lo diciamo quando la cosa di cui ci diciamo ricchi o poveri è un bene per noi, qualcosa che ci può, per l’appunto, “arricchire”. Le idee possono dare anch’esse felicità (in qualche momento, anche più di altri beni) alle persone di pensiero, e ciò vale in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto, ma d’idee in quanto idee. I giudizi vengono dopo.
Permettete un riferimento in prima persona. Poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, ho preso l’abitudine di preparare le lezioni scrivendone la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo dove fosse sparita. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena di morte, un tema davvero inesauribile: lo Stato dispensatore di vita e di morte: summum ius o summa iniuria?) e di ragionare insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti.
Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere all’entusiasmo, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita”, e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di altri, che la spendono nell’autorealizzazione in differenti aspetti dell’umana natura. Invece, nella comune percezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi, sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa da cui le “persone del fare” possono facilmente prescindere. Le idee sono per “gli intellettuali”, parola che si pronuncia sempre con una certa dose di disprezzo. Pensare: che cosa noiosa, pesante, pedante, superflua!
Un’idea che, dall’antichità, giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa, tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)? Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità, ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita, secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del Settecento.
Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. Le intenzioni sono evidentemente buone: si tratta di contestare il Pil come unico misuratore del benessere d’una nazione e di affermare che ci sono ricchezze che sfuggono agli orizzonti dell’econometria. È merito di Robert Kennedy il discorso pronunciato all’Università del Kansas, il 18 marzo 1968, in cui si denunciava la riduzione economicista e materialista della felicità e dell’infelicità all’indice Dow-Jones e al prodotto nazionale lordo «che non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza». Nell’elenco dei beni che fanno felici e che rendono umana la vita sono inclusi le competenze, la cultura e altri beni dello spirito, ma invano cercheremo le idee.
Lo stesso, quando i governi s’indirizzano a impiantare su basi scientifiche le loro politiche per la felicità e, a questo scopo, s’impiegano mezzi demoscopici e i sondaggisti si mettono all’opera. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema
Le bonheur: une idée neuve.
Per la verità, già Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati in là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc.
Altri indicatori dello sviluppo, che distinguono gli aspetti quantitativi da quelli qualitativi, sono utilizzati, per esempio, nel Genuine Progress Indicator. Di recente, anche il nostro Paese ha iniziato a fare la sua parte in questo genere di calcoli. L’Istat e il Cnel hanno messo a punto il Bes (Benessere equo e sostenibile), un misuratore che il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha definito «una specie di costituzione statistica fondata su dodici indicatori. Non tutto ha un prezzo: il sorriso di chi ci circonda, la solitudine, l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità. A livello globale gli economisti e gli statistici l’hanno capito da tempo ». Si tratta di «veicolare il messaggio che avere carceri umane, sconfiggere il femminicidio, valorizzare il patrimonio culturale, preservare l’ambiente, leggere libri, sostenere la ricerca, restituire credibilità alla politica […]migliora la vita di tutti ». (La Repubblica, 10 marzo 2013).
Questi parametri e le politiche che ad essi s’ispirano sono cose buone, anche se non si deve trascurare il rischio che diventino armi ideologiche per interessi politici. Ciò che più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte.
Non si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro estraneità
alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante.
Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola opprime.

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