Si parla del ruolo di Internet in politica da numerosi anni, ma in questi ultimi mesi il dibattito si è fatto particolarmente accesso. Da una parte c’è chi prospetta, come il Movimento Cinque Stelle, una democrazia elettronica diretta, con la riduzione del ruolo dei parlamentari a quello di semplici esecutori (anche se non è chiaro, oltre al resto, della volontà di chi). Dall’altra c’è chi difende la democrazia rappresentativa così come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi decenni in Italia, partiti inclusi, ritenendolo, pur coi suoi difetti, il migliore dei sistemi possibili.
E’ necessario provare a superare questa contrapposizione, perché le prospettive più promettenti per il futuro della democrazia a mio avviso non stanno ne’ da una parte ne’ dall’altra. Per farlo, però, ricordiamo alcuni elementi di contesto.
Primo elemento: i partiti politici italiani risultano da anni l’istituzione meno gradita agli italiani, con indici di gradimento che, a seconda dei sondaggi, scendono spesso sotto il 10%. Questo dato, oggettivamente clamoroso, non significa che gli italiani rigettino la forma partito in quanto tale; significa solo gli italiani non apprezzano i partiti italiani nella loro forma attuale. A questa grave crisi di legittimità – aggravata da un astensionismo sempre più forte – i partiti non hanno finora reagito in maniera adeguata.
Il secondo dato di contesto è che alla massima sfiducia nei confronti dei partiti corrisponde un potere enorme, un vero e proprio monopolio della vita pubblica. Non è questa la sede per analizzare le articolazioni del potere partitico, ma a distanza di oltre sessant’anni dal conio della parola ‘partitocrazia’ ricordiamo soltanto che è sempre vigente una legge elettorale che dà ai vertici dei partiti il potere di nominare, di fatto, il parlamento. Ricordiamo, inoltre, lo scarso rispetto che i partiti hanno mostrato nel corso dei decenni verso le proposte di legge di iniziativa popolare e gli esiti referendari, le due forme di democrazia diretta esplicitamente previste dalla Costituzione.
Il terzo e ultimo dato contestuale è il processo noto come globalizzazione, che a partire dagli anni ’70 ha progressivamente ridotto la capacità delle democrazie di controllare l’economia. Anzi, la globalizzazione ha portato a un’influenza sempre maggiore dell’economia sulla politica, provocando, oltre al resto, un generalizzato aumento delle diseguaglianze, come descritto, tra gli altri, da John Gray, Steve Wolin, Luciano Gallino, Robert Reich, Joseph Stiglitz e Lawrence Lessig.
Non sorprende dunque che molti cittadini ritengano di vivere in una democrazia caratterizzata da limiti molto gravi: un sistema politico opaco in cui la voce del singolo conta solo in occasione delle elezioni, e anche in quel caso solo all’interno di un’offerta politica che non ha avuto alcun modo di influenzare. Una democrazia, insomma, che potremmo definire debole.
Nei decenni in cui si consolida la democrazia debole, però, ha luogo anche un altro processo, ovvero il diffondersi della rivoluzione digitale, che prima riguarda il mondo sviluppato e poi parti sempre più estese del resto del mondo (sia pure con forti limitazioni anche all’interno degli stessi paesi ricchi, come dimostra il grave divario digitale che caratterizza l’Italia). Un numero crescente di persone, dotate di computer personali, inizia a usare Internet, ovvero, una rete che consente di mettere liberamente in contatto una persona con un’altra (come il telefono), poche persone con molte (come la stampa, la radio, la televisione) e i membri di un gruppo tra di loro (come prima di Internet era molto meno agevole fare). Non era mai capitato prima che una rete di comunicazioni permettesse una tale decentralizzazione del potere di comunicare.
Che una simile trasformazione tecnologica dovesse, prima o poi, avere anche forti conseguenze politiche lo capirono subito alcuni osservatori, tra cui Ithiel de Sola Pool a inizio anni ’80.
Ma, di preciso, quali conseguenze politiche?
Per rispondere è utile confrontare l’impatto della Rete sulle persone (molto consistente) all’impatto sulla politica (quasi nullo).
Per quello che riguarda le persone, sono ormai milioni gli elettori che, cresciuti con la Rete, sono abituati a procurarsi informazioni e conoscenza in maniera molto più autonoma che in passato. Cittadini che – reagendo, anche se a volte confusamente, alla democrazia debole – hanno sviluppato radicate antipatie per le distorsioni spesso diffuse dai media tradizionali e dai partiti. Il risultato è inevitabilmente contraddittorio, un magma che include superficialità e paranoia, ma anche molti cittadini salutarmente critici, desiderosi di accedere alle fonti, di ripensare con la propria testa questioni fondamentali, come testimoniano i forum online di tutta Europa. Discussioni che è facile criticare per la loro non infrequente scarsa profondità, ma che – è bene ricordarlo – non sono molto diverse da quelle che hanno partorito la modernità, dalla Rivoluzione inglese in avanti.
Ma mentre milioni di cittadini usavano sempre di più la Rete per informarsi, discutere e organizzarsi, come reagiva la politica ?
I partiti politici purtroppo ignoravano – e in larga parte continuano a ignorare – la trasformazione cognitiva in atto in milioni di loro potenziali elettori (soprattutto i più giovani).
In altre parole, mentre le conseguenze politiche di Internet sulle persone crescevano e mettevano radici, le conseguenze sulla politica rimanevano del tutto trascurabili.
In particolare i partiti hanno ignorato la questione di come avrebbero dovuto cambiare per entrare in sintonia con cittadini sempre più scontenti della democrazia debole e, grazie alla Rete, sempre più autonomi nei loro giudizi e nella loro capacità di organizzarsi.
Inoltre, a livello istituzionale, i partiti via via al Governo non hanno ritenuto che fosse una priorità introdurre – nel solco della democrazia parlamentare definita dalla Costituzione e nel rispetto del ruolo della politica – nuove strumenti di democrazia diretta. In questo momento storico di democrazia debole nuove forme, ben calibrate, di democrazia diretta avrebbero potuto – e potrebbero ancora – acquisire una grande importanza sia simbolica, sia sostanziale.
Questa inerzia partitica ha permesso, a mio avviso, che si radicasse – prima in cerchie ristrette di persone e poi in settori sempre più ampi della popolazione – un interesse verso forme di democrazia diretta elettronica. In altre parole, al sistema dei partiti, visto come opaco, autoreferenziale e non raramente corrotto, si contrappone la democrazia diretta, giudicata intrinsecamente superiore a quella rappresentativa. Un’analisi critica di questa posizione richiederebbe molto spazio. In questa sede, quindi, mi limiterò ad evidenziare solo quattro punti di particolare importanza. Il primo è che la critica, spesso fondata, al sistema partitico italiano fa dimenticare che l’attività politica è un’arte essenziale per la democrazia, come scriveva Bernard Crick nel 1963 nel suo classico “Difesa della politica”; un’arte basata su virtù come prudenza, conciliazione, compromesso e adattabilità. Il fatto che i partiti politici tradizionali abbiano spesso messo in scena un pervertimento di queste virtù non toglie che siano comunque alla base della politica. Il secondo aspetto è che l’uso di strumenti elettronici per votare e per decidere presenta difficilissimi problemi di sicurezza informatica, al punto che negli USA dove alcuni stati avevano adottato il voto elettronico si sta addirittura discutendo di tornare al voto cartaceo tradizionale. La terza criticità è che la democrazia rappresentativa non è intrinsecamente inferiore a quella diretta; in proposito il riferimento d’obbligo è al pensiero di Nadia Urbinati. Infine la quarta difficoltà è il divario digitale: un italiano su due non è digitale. E tra coloro che non sono online c’è una forte preponderanza di soggetti sociali deboli, come gli anziani e le famiglie di lavoratori non qualificati, che non è accettabile escludere.
Preferisco, quindi, concentrarmi su come far evolvere la democrazia rappresentativa verso forme più partecipate, verso una possibile democrazia forte (Benjamin Barber) o democrazia continua (Stefano Rodotà).
Quali nuove forme? Le proposte non solo non mancano, ma in alcuni casi sono già state ampiamente sperimentate, a vari livelli. Oltre al dialogo continuo eletti-elettori di cui parla Nadia Urbinati, si spazia da consultazioni fatte seriamente (come quelle, vincolanti, fatte a Vienna sulle Olimpiadi 2028) ai bilanci partecipativi (nota è l’esperienza di Porto Alegre), dai sondaggi deliberativi proposti da James Fishkin ai referendum propositivi, dall’obbligo di discutere in Parlamento le proposte di legge d’iniziativa popolare al ‘debat public’ francese. O anche, a livello europeo, le direttive di iniziativa popolare, una novità introdotta dal Trattato di Lisbona.
Si tratta di proposte che la Rete permette di realizzare in maniera non solo più efficiente, ma anche con maggiore trasparenza e dando potenzialmente più voce a chi finora ha in genere fatto fatica a farsi sentire.
I partiti, dunque, per riprendere l’iniziativa e affrontare la loro crisi di legittimità dovrebbero avviare una stagione costituente rivolta innanzitutto a loro stessi, con riflessioni incentrate, da una parte, sulla democrazia debole in tutti i suoi aspetti, e, dall’altra parte, sulla Rete sia come strumento abilitante sia come fattore di cambiamento antropologico di molti cittadini.
Da un’esperienza a livello di partito di questo tipo, se fatta seriamente, è poi lecito aspettarsi la definizione di proposte che vadano nella stessa direzione, ma riguardanti le istituzioni locali, nazionali ed europee.
La via d’uscita dalla crisi attuale non è, dunque, a mio avviso, ne’ la democrazia diretta elettronica, ne’ certamente la difesa dello status quo, ma un’evoluzione – condotta da partiti profondamente rinnovati (o del tutto nuovi) – della democrazia rappresentativa verso forme più partecipate: nel panorama politico italiano ci sarà qualcuno all’altezza della sfida?