Quello che manca al programma di Bersani

20 Dicembre 2012

Tuttavia, con il terrore che i mercati si interessino veramente ai programmi del Pd, si è rimasti molto sul vago in modo tale che neanche i cittadini sapranno bene che cosa stanno votando. Se si propone il «coraggio di cambiare», però, il primo dovere davanti agli elettori è di avere il coraggio di credere alle proprie idee.

“Il coraggio di cambiare” è stato lo slogan della campagna per le primarie del centrosinistra di Pierluigi Bersani ed è il titolo del documento programmatico ove il segretario del Pd espone, tra le altre, le sue idee economiche.
La prima lezione che Bersani sembra aver imparato è che doveva evitare il ridicolo delle 252 pagine del programma dell’Unione guidata da Prodi nel 2006. Si trattava di un polpettone di difficile comprensione che conteneva proposte a volte contraddittorie se non proprio amene. Nel 2012, invece, ci siamo trovati di fronte a 10 proposte di una paginetta ciascuna, scritte in modo chiaro e addobbate cromaticamente dal bianco, rosso e verde del Tricolore.
La levità tende ad essere il tratto predominante del leader del centrosinistra: le pagine non sono numerate, ad esempio, anzi, per non sbagliare non c’è un solo numero in tutto il programma. La spesa pubblica verrà diminuita o aumentata da Bersani? Non si sa.
Ma andiamo con ordine. Nella scheda sulla democrazia vengono affrontati temi molto importanti anche dal punto di vista economico. Si legge infatti: «Siamo per norme stringenti in materia di conflitto d’interessi, legislazione antitrust e libertà d’informazione, falso in bilancio, secondo quei principi liberali estranei alla destra italiana». Bene. Dal mio punto di vista, un principio liberale prevede che non ci sia interferenza dello Stato nei mezzi di informazione (ricordate la famosa domanda retorica di von Mises? «A cosa servirebbe la libertà di stampa se tutte le tipografie fossero di proprietà dello Stato?»). Perciò la conseguenza dovrebbe essere l’immediata privatizzazione della Rai e la cessazione di ogni sussidio ai media, soprattutto agli organi di partito. Vuole questo il Pd?
Sul fisco si afferma che verrà alleggerito il prelievo sul lavoro e sull’impresa, lottando contro l’evasione e spostando il peso del fisco «sulla rendita e sui grandi patrimoni finanziari e immobiliari» (ecco la famosa patrimoniale). Peccato che manchi l’elemento più importante del discorso: col governo Bersani la pressione fiscale aumenterà o diminuirà? Posso sopportare 1000 euro di Imu in più se pago 1500 euro in meno di Irpef, non il contrario.
Interessante è anche la promessa di contrastare la precarietà, «cambiando le norme e rovesciando le politiche messe in atto dalla destra nell’ultimo decennio». Orbene, la normativa sul lavoro è stata appena cambiata dal governo Monti, rendendo più rigide le norme in entrata (bloccando così le assunzioni come ormai ammette lo stesso ministro Fornero, che aveva risposto puntuta alle critiche espresse dalle colonne di questo giornale) e lievemente più flessibili quelle in uscita. Il Pd proporrà dunque ancor più lacciuoli all’ingresso e una marcia indietro sulla flebile riforma dell’articolo 18?
Su scuola e università, l’unica indicazione che si ricava dalle 10 paginette è che bisogna metterci più soldi (e siccome è una delle poche informazioni sulla spesa pubblica, si capisce che per Bersani questa dovrà aumentare). Come farlo non è dato saperlo e comunque non c’è una riga su autonomia di istituti e atenei né un accenno, nemmeno di sfuggita, alla parolina «merito». I sindacati della scuola possono dormire sonni tranquilli, i docenti bravi no.
Un paragrafo è dedicato ai «beni comuni» e l’incipit è abbastanza ambiguo: «Bisogna introdurre normative che definiscano i parametri della gestione pubblica o, in alternativa, i compiti delle autorità di controllo a tutela delle finalità pubbliche dei servizi ». L’unica cosa certa è che le privatizzazioni sono fuori dall’orizzonte del segretario Pd. E questo vale per tutto, non solo per le aziende locali: è assente qualsiasi proposta di vendere foss’anche un garage o una casetta. Inoltre, la ricetta proposta è una sola: regolazione, regolazione, regolazione. Persino la «concorrenza» non fa capolino nel linguaggio di colui che fu l’uomo delle lenzuolate di liberalizzazioni (mai nominate anche loro, poverette).
Basta così, qui e là si trova una lista di buone intenzioni incapsulate in parole d’ordine come «sviluppo sostenibile», «economia reale», «risparmio ed efficienza energetica» che potrebbero far parte del programma di Storace, Vendola e Berlusconi indifferentemente. Per il resto bisogna arrivare all’ultima pagina per trovare l’unico numero, quello del conto corrente per contribuire alla campagna di Bersani.
Quest’ultimo è libero di adottare le politiche economiche che vuole: le dieci proposte non sono criticabili in quanto dirigiste o socialiste, in fondo ognuno davanti ai cittadini propugna ciò che crede giusto per il paese. Tuttavia, con il terrore che i mercati si interessino veramente ai programmi del Pd, si è rimasti molto sul vago in modo tale che neanche i cittadini sapranno bene che cosa stanno votando.
Se si propone il «coraggio di cambiare», però, il primo dovere davanti agli elettori è di avere il coraggio di credere alle proprie idee.

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