Dice l’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Breve e denso di significato come tutti quelli della nostra Carta fondamentale, ma sostanzialmente inattuato. All’origine di questa negligenza c’era il timore da parte del Pci che qualunque legge attuativa potesse essere utilizzata per mettere fuori legge lo stesso Pci e magari anche il Psi. Timore non del tutto infondato nel contesto politico dell’epoca, tanto che anche la Dc ritenne di non dover insistere sull’argomento. Adesso però le condizioni sono cambiate e, anzi, urge riprendere in mano la questione.
La corruzione dilagante, il degrado morale, la pessima qualità della classe dirigente impongono la ricerca di una soluzione. Che non è né semplice né univoca. Ma la molla per dare il via ad un reale rinnovamento potrebbe essere proprio questa: obbligare per legge i partiti a imboccare un percorso virtuoso.
Se ne è parlato in questi ultimi sciaguratissimi mesi, ma soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti. Non basta: bisogna, come accade altrove in Europa, consentire l’accesso al finanziamento pubblico solo alle formazioni costituite secondo la legge. Bisogna cioè dare veste giuridica ai partiti stabilendo per tutti regole elementari di democrazia: statuti che garantiscano la partecipazione di iscritti ed elettori, occasioni di dibattito interno, cariche direttive elette e contendibili.
Chiariamo subito una questione preliminare: oggi “partito” è una parolaccia, ma non è che chiamarsi associazione o movimento cambi le cose. In ogni caso, e specialmente se ci si presenta alle elezioni, c’è bisogno di democrazia interna, altrimenti si finisce male. Invece garantendo partecipazione e contendibilità si fa piazza pulita di tutte le distorsioni che sono alla base del disastro odierno: niente più partiti personali, niente più folle acclamanti. Un leader potrà essere amato, ma dovrà anche essere votato. E l’azione politica potrà essere discussa, integrata e modificata. Così nuovi leader saranno in grado di emergere e sfidare i vecchi.
Poi, all’interno di questa cornice, ciascuno realizzerà l’obiettivo come crede, usando le piazze e le sale convegni, come si faceva in passato, oppure la rete. Purché tutto sia trasparente e accessibile.
Certo, pensare che così i vizi della cattiva politica si dissolvano d’incanto è illusorio. Come dice il proverbio, l’erba cattiva non muore mai. Ma almeno sarà più visibile, e questo è già un risultato. Poi bisognerà integrare il tutto con severe condizioni di finanziamento, controlli spietati, norme serie sulle incompatibilità e i conflitti di interesse. Sperando che, nel frattempo, si riesca a far crescere un’opinione pubblica degna di questo nome, e cioè capace di far pagare ad un governante i suoi errori molto prima che quegli errori infettino l’intero tessuto sociale. Un compito che non può toccare alla legge e a chi governa, ma ad ognuno di noi.
Naturalmente una simile rivoluzione non potrà essere varata in questa legislatura avvelenata e ormai agli sgoccioli. Ma si potrebbero valutare i partiti e i loro candidati alle prossime elezioni proprio sulla base delle loro scelte in questo senso. Astenersi non serve, mentre pretendere da loro un impegno concreto sì.