È DIFFICILE negarlo, il Paese si avvia ad elezioni decisive nel peggiore dei modi. Decisive davvero: è in gioco la possibilità di superare realmente una crisi economica senza precedenti e densa di incognite, che chiama in causa il futuro nostro e dell’Europa. È in gioco, più ancora, la possibilità di invertire derive rovinose nel modo di essere del Paese e della politica, avviate già negli anni ottanta e accelerate nella stagione di Berlusconi: la possibilità, in altri termini, di ricostruire quei fondamenti del vivere civile e dell’agire pubblico che sono stati dissipati ed erosi negli ultimi tre decenni. Eppure questa consapevolezza sembra spesso assente nel dibattito politico, mentre in molti cittadini la sensazione di un’urgenza è soffocata da un diffuso senso di impotenza, da una rassegnazione quasi disperata o da quella rabbiosa reazione che alimenta l’antipolitica. O meglio, che trasforma in antipolitica la fondatissima protesta contro la politica esistente.
A differenza di quel che avvenne nella crisi della “prima repubblica”, è difficile oggi illudersi che una incorrotta società civile possa prepararsi uno splendido futuro semplicemente liberandosi di un ceto politico corrotto e inadeguato. Nel 1994 il risveglio fu amarissimo: il “nuovo” ebbe i volti di Berlusconi e di Bossi, e l’assenza o l’inadeguatezza di proposte di buona politica favorì il loro affermarsi e il loro disastroso permanere. Al tempo stesso molte involuzioni della società civile, o di una parte di essa, non sembrano dissimili da quelle del ceto politico, percorse come sono da inosservanze civiche e dalla carenza di etica pubblica. Per molte ragioni dunque un’inversione di tendenza, assolutamente necessaria, può essere solo l’inizio di una Ricostruzione di lunghissimo periodo: ma per le stesse ragioni essa appare al tempo stesso essenziale e lontanissima, quasi un’utopia.
La divinità acceca coloro che vuol mandare in rovina, non si può commentare in altro modo la sorda resistenza dei partiti alle richieste sempre più diffuse ed esasperate di una radicale trasformazione della politica: di un taglio drastico dei suoi costi, dei suoi sprechi e delle sue impunità; di una limpida trasparenza; di un rinnovamento
profondo del suo personale e del suo modo di essere (cosa molto diversa dal “nuovismo”: rimedio forse peggiore del male ma – in assenza d’altro – capace di esercitare una qualche attrazione). Vi è indubbiamente una distanza abissale fra quel che i cittadini si attendevano su questo terreno e quel che i partiti hanno messo in cantiere in questi mesi: e, come se non bastasse, quasi nulla di quel pochissimo che è stato tardivamente promesso è stato poi realizzato. Si arricchisce invece ogni giorno il panorama delle “normali indecenze”: sino ai 18 (diciotto) segretari alle dipendenze del Presidente del Consiglio regionale del Lazio, solo una piccola parte degli indebiti sprechi e abusi del Pdl in quella sede. Si aggiunga, per altri versi, il
kafkiano protrarsi del dibattito sulla riforma elettorale: il centrodestra punta esplicitamente ad un nuovo “Porcellum” — è mosso cioè solo dai suoi interessi più immediati e contingenti — mentre il centrosinistra affonda in nebbie incomprensibili (cosa capiscono i cittadini, ad esempio, delle posizioni del Pd sulle preferenze?). «Ecco allora il semipresidenziali-smo temperato, il federalismo depotenziato, il bicameralismo moltiplicato, la legge
elettorale ulteriormente complicata»: quindici anni fa Edmondo Berselli sferzava così il mesto affondare della Commissione Bicamerale sulle riforme costituzionali, e il dibattito su questi temi – cioè sulle modalità di funzionamento della democrazia – è oggi ancor più caricaturale. Per ora questa condotta irresponsabile ha fatto le fortune di Beppe Grillo, e c’è solo da sperare che ci si fermi qui. Probabilmente è vero che il centrodestra non può vincere le prossime elezioni ma l’assenza di convincenti proposte alternative, capaci di raccogliere un ampio consenso, porterebbe comunque al protrarsi e all’aggravarsi della paralisi. E al dissolversi di quella ritrovata credibilità internazionale e di quell’avvio di risanamento che sono un
merito indiscutibile del governo Monti.
Ancora una volta, come in passato, il centrosinistra sembra seriamente impegnato a dissolvere il vantaggio che si è trovato ad avere, senza suo merito, grazie al tracollo dell’avversario. Il sindaco di Firenze, ad esempio, rovesciando di fatto lo spirito originario dell’Ulivo, punta esplicitamente a trasformare le “primarie” in una resa dei conti interna al Pd ed è ampiamente facilitato dalla irritata reazione di una inamovibile oligarchia di sconfitti. Purtroppo, va aggiunto, non è ancora pienamente comprensibile l’alternativa che Pier Luigi Bersani sta costruendo, o dovrebbe costruire con urgenza. Non è chiarissimo in che modo il Pd intenda far tesoro dell’esperienza del governo Monti: a partire dalla costruzione di una squadra di governo che si candidi a proseguirne gli aspetti più fecondi e a mantenerne gli impegni più cogenti (sia pur andando più a fondo, come Bersani giustamente sottolinea, sul terreno dell’eguaglianza sociale e del lavoro). Eppure la proposta esplicita e chiara di una compagine governativa di alto profilo, di un collettivo di grande capacità e autorevolezza, sarebbe sin d’ora essenziale per l’Italia
e per l’Europa e riporterebbe alle giuste dimensioni la discussione stessa sul candidato premier (peraltro destinata a diventare meno rilevante ove il meccanismo del maggioritario venisse intaccato). E la premessa di ogni programma è obbligatoriamente costituita da misure drastiche e indifferibili di riforma della politica.
Nella perdurante assenza di un progetto forte e credibile, di un “colpo d’ala” assolutamente necessario, le spinte divaricanti stanno acquistando un vigore crescente e rischiano di erodere su entrambi i versanti la proposta di un “centrosinistra aperto ai moderati”. Vi è, come è ovvio, la naturale propensione di Pier Ferdinando Casini a giocare in primo luogo una propria partita, ed emergono al tempo stesso vecchi nodi. È possibile rivendicare, come è giusto, il sostegno al governo Monti e al tempo stesso allearsi con chi lo considera responsabile di nefandezze e sta promuovendo anche un referendum – cioè sta costruendo un evento altamente simbolico – contro alcune delle misure che ha attuato? Anche in questo caso Sinistra e Libertà si è affiancata a Di Pietro, ma gli elettori di centrosinistra non meritano di avere nel loro futuro le delusioni già subite ai tempi della Rifondazione di Fausto Bertinotti (e di Nichi Vendola). Né di vedere ancora ministri e leader politici della maggioranza sfilare contro il loro stesso governo, come è accaduto durante il secondo governo Prodi. Senza sciogliere in modo esplicito questi nodi un’alleanza sarebbe fragile e francamente discutibile: il tempo a disposizione è scaduto da tempo ma purtroppo una caldissima estate non ha portato molto consiglio.
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