Quando si cerca di individuare nei meandri della Storia il momento iniziale della stagione di Mani Pulite, ci si ritrova sempre avvinti nel gelo e nella nebbia della Milano del 1992: si pensa all’arresto di Mario Chiesa, e al suo goffo tentativo di far sparire i soldi delle mazzette nell’impianto fognario del Pio Albergo Trivulzio. Secondo la communis opinio, infatti, la Prima Repubblica è finita così: inghiottita dal gelo e dalla nebbia, avvolta dallo squallido coriandolio di banconote svolazzanti, faccendieri senza scrupoli, politici corrotti, magistrati e poliziotti costretti a navigare a vista in un oceano di malcostume.
Personalmente, ritengo invece che la parabola della discendente della Prima Repubblica fosse cominciata quasi dieci anni prima, in un infuocato luglio romano, al piano nobile di Botteghe Oscure. Il crollo della Prima Repubblica ha inizio con la famosa intervista rilasciata da Berlinguer ad Eugenio Scalfari, nella quale il segretario del PCI già rilevava che “i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze ed i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”.
Berlinguer vedeva lontano, e già da allora avvertiva la necessità di elaborare un’alternativa democratica ad un sistema prossimo all’implosione; Berlinguer vedeva lontano, e per primo aveva intuito l’esistenza di un circuito di corruzione contraddistinto da “serialità” e “diffusività”: tutti pagavano, pagavano sempre. La tangente era diventata regola, la trasparenza e la regolarità inconcepibili anomalie: si tratta della logica della “dazione ambientale” di cui Antonio Di Pietro e Piercamillo D’Avigo hanno più volte illustrato il funzionamento, della logica perversa che alimentava la stagione della “Milano da bere”.
Dopo l’arresto del Mariuolo della Bagina, le indagini del Pool di Borrelli procedettero secondo una sorta di dirompente effetto-domino: le “isolate mele marce” non persero tempo a descrivere agli inquirenti “il resto del cestino”; gli imprenditori corruttori o concussi facevano il nome dei politici corrottti e concussi, che a loro volta facevano i nomi di altri imprenditori e di altri politici; i magistrati seguivano, sempre più sgomenti, la traccia di quell’infinito fiume di denaro che idealmente collegava i Navigli al Tevere.
La difesa dei cacicchi del pentapartito, nei tribunali come nelle aule parlamentari, risuonò debole e spuntata: le tangenti servivano solo per sostenere i costi della politica, il finanziamento illecito era prassi generalizzata, nessuna ruberia e nessun arricchimento personale, tutti colpevoli e tutti innocenti. Coperta troppo corta, per celare i puff pieni di diamanti, le ville in Costa Azzurra o i quasi cinquanta miliardi di vecchie lire custoditi nella tana di Ghino di Tacco: i giornalisti scrivevano e riferivano , la gente leggeva e si indignava, le piazze ribollivano di rabbia e lanci di monetine. Craxi fuggiasco in Tunisia (inseguito non dalle spie del KGB ma da una condanna definitiva a sei anni per corruzione), Forlani pietrificato sul banco dei testimoni, Di Pietro nuovo eroe popolare: la questione morale esisteva eccome, Berlinguer aveva visto lontano. Toccava alla sinistra costruire l’alternativa.
E invece? Invece la rivoluzione si è interrotta: è arrivato Berlusconi con Previti e Dell’Utri, Lavitola e Bisignani, la P3 e la P4; il sistema della Milano da bere, da collaterale allo Stato, ha finito col “farsi” Stato. Si giunge dunque alla cronaca di tutti i giorni: allo sfacciato baratto tra un voto di fiducia e una poltrona da sottosegretario; agli imprenditori che ridono sulle lacrime delle vittime del terremoto, alle vacanze e alle case ricevute “a loro insaputa” da uomini delle istituzioni per grazia di qualche faccendiere beneficatore; alla normalizzazione dei conflitti di interesse; alla distorsione dello strumento legislativo a scopi individuali; alla costante aggressione della magistratura; alla palese utilizzazione del meretricio più greve quale chiave di accesso ai palazzi del potere. Come nel 1992, peggio del 1992: la “dazione ambientale” è ancora più generale e seriale; la “dazione ambientale” è si è evoluta in “dazione istituzionale”.
Eppure, ennesimo paradosso di una politica malata, proprio sul piano della questione morale, della capacità di declinare una concezione “etica” della politica, l’azione del centro-sinistra ha spesso deluso le aspettative di gran parte dell’elettorato: volendo limitare il discorso all’essenziale, ricordo solo la scelta di non regolamentare il conflitto di interessi, la mancata abrogazione delle leggi vergogna, la bozza-Boato sulla riforma della magistratura , la decisa limitazione dell’ambito applicativo del reato di abuso d’ufficio, le candidature sciagurate dei vari Razzi, Scilipoti e Calearo, per finire con i recenti episodi di corruzione che coinvolgono anche importanti esponenti dell’area democratica.
Sono fatti che impongono una riflessione collettiva, un confronto tra partiti e società su crisi della rappresentanza e selezione della classe dirigente. Una riflessione che non può non imprendere da tre grandi interrogativi di fondo: vent’anni dopo Tangentopoli, come è cambiato il Paese sul piano politico, sociale e giuridico? La questione morale può ancora essere utilizzata per rimarcare l’endemica “diversità” delle forze progressiste, o deve costituire il presupposto da cui il centro-sinistra deve ripartire per autoriformarsi? E soprattutto: può il centro-sinistra individuare nella questione morale il punto di partenza per l’elaborazione di quell’alternativa democratica di cui Berlinguer teorizzava l’attuazione?
Già, ancora Berlinguer. Berlinguer che aveva visto lontano, e che per primo aveva compreso che: “la questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corruttori, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche”.
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