Chi sa parli e niente bavaglio

23 Giugno 2012

Tutta la mia grande intelligenza, a cosa mi è servita?” mi chiese nella sua cella di Rebibbia Calogero Mannino il 26 agosto del 1995. Ero andata a trovarlo perché stava molto male e chiedeva di tornare in libertà. Mannino era stato uno degli interlocutori privilegiati di noi cronisti della Prima Repubblica.

Tutta la mia grande intelligenza, a cosa mi è servita?” mi chiese nella sua cella di Rebibbia Calogero Mannino il 26 agosto del 1995. Ero andata a trovarlo perché stava molto male e chiedeva di tornare in libertà. Mannino era stato uno degli interlocutori privilegiati di noi cronisti della Prima Repubblica. Conosceva tutto della Dc e parlava chiaro. Ma da qualche anno era come fuori di sé: appena fermava uno di noi, la storia era sempre la stessa: “Non vi rendete conto della grande congiura che è stata ordita contro di noi democristiani per far largo ad altri…”.
A lui sembrava tutto semplice, chiaro. Ma nomi non ne faceva, anche se a un certo punto cominciò ad alludere chiaramente ai nuovi di Forza Italia.
Quel giorno a Rebibbia (poche celle più in là c’era Vito Ciancimino, ironia della sorte o vicinanza voluta da chissà chi e per quale ragione?), Mannino parlò soprattutto del tentativo di rinnovamento della Dc siciliana portato avanti da lui e da Sergio Mattarella su indicazione di Ciriaco De Mita. Tornò solo di sfuggita sul clima di paura che aveva investito la Dc siciliana all’indomani della conferma in Cassazione delle condanne del Maxi processo. Ma non entrammo nei particolari, quelle stranezze che erano riassunte nella carte processuali nei confronti dell’ex ministro, oramai assolto da tutte le accuse. Scrissi su Repubblica: “Raccontano, le carte giudiziarie, della terribile profezia confidata al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli tra la fine del 1991 e l’inizio del ’92: “O uccidono me o uccidono Lima”. Morirono uccisi poco dopo sia Lima che Guazzelli. E Mannino intavolò subito dopo una serie di incontri con Bruno Contrada che andava al Ministero del Mezzogiorno e scriveva nella sua agenda: “un colloquio su sua vicenda”. Oppure: “Colloquio su cose di Sicilia”. Mannino era minacciato e cercava evidentemente aiuto. I magistrati sono convinti che Mannino aveva intuito che i corleonesi erano decisi a vendicarsi dei vecchi referenti e a trovarne di nuovi. Mi chiede ancora: “La mia intelligenza, a cosa mi è servita?”.
Era smunto, ingrigito, sofferente. Più in là, tranquillo e insinuante, l’ex padrone della Sicilia Vito Ciancimino.
Quegli incontri a Rebibbia mi tornano alla mente oggi che molti parlano di trattativa come se non se ne fosse mai sentito parlare. Come di una novità piombata dalla Sicilia per aggravare la situazione già tanto difficile del nostro povero Paese.
Invece tutto è così antico, così già scritto in quel drammatico scontro finale che vide la morte di chi non trattava ed era un ostacolo (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e chi invece pensava di risolvere lo scontro cedendo sul carcere duro, sull’arresto morbido di Riina, (niente perquisizione nella sua casa) e sull’arresto sempre rinviato di Provenzano.
La Dc si muoveva come impazzita, terrorizzata soprattutto dopo l’uccisione di Salvo Lima. Quanto sarebbe durata la mattanza già prevista da Mannino?
Anni di stragi e di morti innocenti. Ho come davanti agli occhi l’immagine di Paolo Borsellino, quel giorno di luglio che interruppe l’interrogatorio di Mutolo per andare dal nuovo ministro, Nicola Mancino, al Viminale e sull’uscio incrociò Contrada, l’uomo dello Stato e della trattativa, E seppe d’essere condannato.
Il Presidente Napolitano ha detto che bisogna fare luce sulla strategia delle stragi. Ha ragione e noi giornalisti che quei morti li abbiamo visti e li abbiamo contati nei nostri articoli gli siamo grati per averlo detto dall’Istituzione più alta.
Quello che grida vendetta, ancora oggi, sono i silenzi di chi ne sa molto di più di noi tutti, quei pochi che sanno e che tacciono ancora per paura o per nuovi interessi personali e politici.
Quello che grida vendetta sono le proteste vuote e supponenti di vecchi uomini dei partiti di allora che si sentono ancora giudicati e che attaccano la magistratura che vuole la verità sui colleghi ammazzati e che minacciano di imbavagliare la stampa.
Quello che non si sopporta sono le chiacchiere all’ombra del Presidente, magari facendosene scudo, discorsi da ex commilitoni, irriguardosi, irresponsabili e certamente non volti alla ricerca della verità ma della convenienza politica.
E’ difficile, per tutti, rimanere saldi nei principi. Ma non è impossibile. Chi deve pagare un prezzo lo paghi: non sarà mai alto come quello di chi ha perso la vita.
Chi deve parlare, parli. E, almeno, non disturbi le indagini.

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