Ad Atene nei giorni scorsi, alla vigilia del voto che ha portato all’ ingovernabilità il paese, molti cittadini in piazza urlavano la loro rabbia: “La festa è finita, ma ora a pagare sono solo i poveracci!”. Purtroppo accade così, nella crisi drammatica che non solo la Grecia sta attraversando. Il contagio si diffonde: anche in Italia viviamo una situazione difficile. Il malcontento e la ribellione dilagano, come mostrano i risultati delle amministrative.
Dopo i risultati elettorali in Grecia, e soprattutto dopo l’ingresso all’Eliseo di Hollande, c’è la speranza che il risanamento dei problemi dell’Europa venga realizzato (ed è quasi un’ovvietà) “con la crescita e non solo con il rigore” (Monti). Secondo il viceministro all’Economia, Grilli, “la situazione finanziaria in Europa resta fragile e tutti devono continuare nel consolidamento dei conti”, perché questa è la “via giusta per la crescita”. Dobbiamo essere “pazienti, perché le riforme non porteranno ad una rapida soluzione. D’altronde i mercati stanno guardando tutti i paesi che combattono col debito”. Ecco: i risparmiatori e la finanza internazionale, cosa vedono in Italia?
C’è una classifica che solo pochi italiani conoscono e consultano: è l’elenco degli Stati più indebitati secondo il Fondo monetario internazionale. Ebbene, in questa speciale lista, su 180 Stati l’Italia occupa il 172mo posto: cioè, il Fmi certifica che solo altri 7 Stati nel mondo hanno un rapporto debito pubblico/Pil (è questo il parametro che si usa per misurare lo sbilanciamento degli Stati) superiore al nostro. L’Italia supera il 120 per cento e anzi oggi, nel 2012, secondo il Def (documento di finanza), siamo già quasi al 123 %. Peggio di noi stanno solo (leggete bene….!): Giamaica rapporto 123,20%, Islanda 123,80, Grecia 165%, Zimbabwe 149%, Libano 150%, Saint Kitts e Nevis 185 %. Ultimo (o primo per ammontare del debito) il Giappone col 225 per cento. Ecco perché lo ‘spread’ dei nostri titoli di Stato decennali in rapporto ai bund tedeschi sale, fino a 400-425 pb (ma è anche arrivato a 575 pb): la comunità finanziaria internazionale guarda la classifica e capisce che non può fidarsi della capacità del nostro paese di ripagare il suo enorme debito (quasi 2 mila miliardi di euro) e chiede interessi sempre più alti per prestarci capitali (che ci servono per le spese dello Stato) ed investire in Btp.
Il Giappone è paese progredito e moderno ed è istruttivo capire perché, nonostante il debito pubblico elevatissimo (13.500 miliardi di dollari circa), sia credibile nel mondo. A Tokio si registra ogni anno una crescita e uno sviluppo del prodotto interno piuttosto sostenuto e quindi un aumento della ricchezza complessiva della nazione, così che i mercati non temono inadempienze sul debito. Nel 2012, per esempio, il Pil di Tokio è previsto in aumento del 2,3 per cento e nel 2013 dell’1,7.
E’ una crescita che in Europa possiamo sognare (la Germania prevede +0,7 nel 2012 e + 1,6 nel 2013): l’Italia è in recessione e avremo una diminuzione del Pil vicina al 2 per cento quest’anno. Una crescita importante e stabile non esiste da tempo nel Belpaese. Altri dati giapponesi differenti dai nostri: disoccupazione
al 4,5 per cento (in Italia quasi il 10), inflazione 0,3 per cento, rating Standard & Poor’s AA- . Soprattutto: ai fini della sostenibilità dell’enorme debito di Tokio, i titoli di Stato vengono sottoscritti e acquistati al 90 per cento da risparmiatori, istituti bancari, organismi finanziari giapponesi, non da investitori stranieri o fondi
di investimento di altri paesi. I Btp italiani invece, sono in mano circa al 45 per cento, proprio di organizzazioni e strutture non nazionali. Con la ovvia conseguen- za che se all’estero decidono di disfarsi dei nostri titoli perché non si fidano più dell’Italia, nessuno potrà impedirglielo, magari appellandosi alla solidarietà nazionale o al bene del paese. Non basta dire, oggi, che non è democratico essere governati dalla finanza. Vero. Ma dovevamo pensarci negli anni scorsi, quando il debito pubblico aumentava incontrollato. Senza la crescita.
I mercati non sentono ragioni e fanno ciò che conviene agli investitori: così è avvenuto nell’estate scorsa fino a novembre; poi la situazione è migliorata (per la credibilità di Monti), ma da qualche settimana siamo di nuovo – anche per cause estranee all’Italia, come la crisi spagnola o della Grecia- a rischio, con lo spread che sale e gli interessi dei nostri Btp al 5-6 per cento (e per pagarli si accresce il debito). Mentre in Giappone i detentori nazionali e risparmiatori si accontentano di un irrisorio 0,8-1 per cento annuo di remunerazione per il loro investimento in titoli.
Qualche giorno fa, il 1 maggio, il Presidente Napolitano ha spiegato in poche parole chiare qual è la condizione finanziaria italiana (dopo che le scelte compiute nei mesi scorsi e i sacrifici di tutti, hanno permesso di “allontanare rischi di eventi catastrofici”). Dice Napolitano che si deve ” evitare il riprodursi di un’emergenza allarmante, a cominciare da un’impennata della spesa per interessi sui nostri titoli del debito pubblico, che già si avvicina alla cifra di 80 miliardi di euro in ragione d’anno, sottraendo un ingente volume di risorse finanziarie pubbliche ad impieghi importanti per lo sviluppo del paese o a scelte di riduzione della pressione fiscale”.
Quali “eventi catastrofici”? “A novembre stavamo per fare la fine della Grecia…abbiamo corso il rischio di non pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici” (Monti), oltre 3 milioni. “Voglio ricordare che eravamo nelle condizioni in cui, forse, le pensioni non si sarebbero potute pagare: quella sì che sarebbe stata macelleria sociale” (ministro Fornero, alla Camera, 3 maggio). “Siamo intervenuti su un aereo che perdeva quota e che doveva cambiare varie parti in volo….” (ministro Passera, al ‘Fatto quotidiano’).
Naturalmente, poiché non siamo come i ciechi del quadro di Bruegel evocato da Monti, vediamo benissimo gli errori e i ritardi del governo da novembre a oggi. Tuttavia era anzitutto necessario affrontare l’emergenza e impedire all’aereo tricolore di schiantarsi.
Anche in Italia la ‘festa’ è finita. Come si suol dire, abbiamo vissuto per molti anni “al di sopra delle nostre possibilità”. Cioè? A parte gli sprechi di varia natura sui quali interverrà il governo con il …commissario Enrico Bondi, vogliamo indicare, in conclusione, un capitolo che non si apre mai, perché, come al solito, in Italia la memoria è corta: è quello delle ‘pensioni baby’. Non è una voce del bilancio pubblico e previdenziale modesta, come erroneamente si crede. Tutt’altro. Il nostro sistema deve ancora sostenere il notevole esborso di ben 9,4 miliardi di euro all’anno, per pagare l’assegno mensile ad una armata di oltre 535 mila pensionati ex giovani. Infatti, nel 1973 (decreto 1092 del governo Rumor, Dc, Psi, Psdi, Pri) si decise che tutti i dipendenti statali potevano andare in pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno di lavoro. Alle mamme, tuttavia, si concedeva un ancor migliore trattamento: le impiegate pubbliche con figli andavano in pensione con 14 anni, sei mesi e un giorno. La legge che stabiliva tale incredibile privilegio è rimasta in vigore fino al 1992 (riforma delle pensioni Amato). Ma chi aveva ottenuto il beneficio (a un’età di 40-45 anni) nel ventennio di applicazione, ha continuato, continua e continuerà a percepire l’ assegno. Considerando la speranza di vita, avendo versato contributi per 14 anni e rotti, prenderà la pensione in totale per 35-40 anni. Un bell’affare, assolutamente legittimo e legale. I vitalizi sono concentrati al Nord (65 %). Non si possono cancellare ovviamente (diritto acquisito), ma – forse, forse – un contributo di solidarietà del 10-20 % potrebbe essere richiesto (per una somma di 1-2 miliardi, non sarebbe poco!) a questo mezzo milione di fortunati. Fra i quali – è noto – ci sono la moglie di Bossi, Manuela Marrone, ex insegnante, ritirata a 39 anni (circa 750 euro mese); Antonio Di Pietro prematuramente pensionato dalla magistratura; la sorella e la consorte di Giulio Tremonti; Adriano Celentano e molti altri nomi noti, che potrebbero rinunciare alla ‘pensione baby’ senza rischiare la fame. La ‘festa’ anche da noi è finita. Ma qui le ‘danze’ continuano sull’orlo del baratro.
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