Ha le sembianze e i tempi di una trappola il voto della Camera sulla responsabilità civile dei magistrati, dietro cui si nascondono finalità che hanno poco o nulla a che fare con la materia sulla quale è scattata.
L’aspetto ingannevole riguarda il contesto in cui un deputato leghista ha presentato l’emendamento che introduce la possibilità di rivalersi contro il giudice che abbia danneggiato qualcuno con «manifesta violazione del diritto»; l’ha infilato nel disegno di legge sugli «adempimenti degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee», col pretesto dell’adeguamento a una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Ue. Che però riguardava la responsabilità degli Stati, non dei singoli magistrati. I tempi, poi, sembrano scelti apposta per mettere in difficoltà il governo e la sua «strana» maggioranza, votando un provvedimento sul quale il ministro aveva espresso parere contrario e ricomponendo la vecchia coalizione Pdl-Lega contro Pd e Terzo Polo (al netto dei franchi tiratori). Tanto per far capire che l’esecutivo è sottoposto a continua pressione.
Ma a parte il movente dell’agguato, il danno peggiore rischia di subirlo una sensata e organica — quanto ipotetica, forse illusoria — riforma della giustizia. All’interno della quale si dovrebbe e potrebbe affrontare anche il complesso e scivoloso tema della responsabilità civile dei magistrati, che meriterebbe soluzioni serie e meditate. Non certo un’accettata come quella vibrata ieri dal voto dell’Aula, dalle pericolose conseguenze, che ha subito riacceso il conflitto tra politica e giustizia. Un colpo di mano politico che c’entra poco con i reali diritti dei cittadini, al quale i radicali si sono associati pur di muovere qualcosa in una battaglia che li vede protagonisti, pressoché solitari, da un quarto di secolo.
Dall’inizio della legislatura giacciono in Parlamento disegni di legge su quella materia, impantanati in una discussione mai iniziata o appena abbozzata. È la dimostrazione più evidente che alla ex maggioranza la materia interessava poco, ché altrimenti avrebbe avuto il tempo di varare norme organiche. Evidentemente anche questa eventualità è stata fagocitata da altre emergenze, legate ai processi a carico di Silvio Berlusconi.
Le tossine del conflitto permanente dovuto a quella situazione sono rimaste in circolazione, e continuano a produrre effetti collaterali come la norma varata ieri. Che così com’è scritta, porta con sé il rischio che un giudice chiamato a decidere su una controversia (e quindi a interpretare la legge) pronunci il suo verdetto condizionato dalla forza economica delle parti in causa, per evitare problemi; come ha scritto su queste colonne il professor Trimarchi, docente emerito di Diritto civile alla Statale di Milano, c’è la concreta possibilità «che si senta indotto a preferire non già la soluzione più giusta, bensì quella che implica per lui stesso un minor rischio di danno risarcibile».
Questa e altre considerazioni andrebbero almeno tenute in conto, nell’affrontare una questione che è tecnico-giuridica prima ancora che politica. Non perché la politica debba per forza lasciare il posto ai professori. Anzi. Ma ascoltarne il parere non guasterebbe.
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