Se Silvio Berlusconi volesse dimostrare di saper ancora esercitare una parvenza di leadership sul suo mondo traumatizzato da due disfatte consecutive, dovrebbe in primo luogo tenere a bada il lessico incontrollato di un centrodestra (linguisticamente) allo sbando. Per il bene del centrodestra metta fine, se vuole e se ne è in grado, alla forsennata deriva estremista del linguaggio dei suoi zelanti esternatori del nulla. Rintuzzi le dichiarazioni più sconsiderate, l’urlo di chi reagisce con la disperazione delle parole all’incubo di una sconfitta dolorosa. Per il bene del centrodestra, dica ai suoi che perdere non significa necessariamente perdere malissimo, dando di sé l’immagine peggiore e più squilibrata. Più odiosa, addirittura.
Dica che è insensato che i ministri sparacchino sui precari. Che i dichiaratori professionali alla Stracquadanio attribuiscano la sconfitta referendaria ai perditempo di sinistra che gironzolano per il Web. Che l’intimazione a spostare i ministeri al Nord non incanta nemmeno più il deluso elettorato leghista. Se il centrodestra pensasse di compensare il dolore aspro della sconfitta con la rincorsa alle parole meno sorvegliate, commetterebbe l’ennesimo errore catastrofico. A Milano, tra il primo e il secondo turno, il centrodestra si è abbandonato all’estro dell’oltranzismo verbale: gli ululati su «zingaropoli», le orde di musulmani che espugnano il Duomo, il terrorismo anni Settanta addirittura. Si è visto come è finita: con l’apocalisse, degna conclusione di una maratona verbale cominciata con l’equiparazione dei magistrati alle Br.
È probabile che il destino del berlusconismo sia segnato. Ma non è obbligatorio che la fine venga vissuta con un cupio dissolvi che fa paura e disorienta persino l’elettorato più caparbio del centrodestra. Non è necessario che tutto si riduca a barzelletta, alle battute che vorrebbero ostentare disinvoltura ma denunciano soltanto angoscia per un imminente de profundis. Lo dica, il leader del centrodestra, ai suoi. Dica al ministro Maroni che è legittimo dissociarsi apertamente e lealmente dall’azione militare in Libia, ma non dare l’impressione, per ingraziarsi il frastornato elettorato leghista, di non saper stare responsabilmente in un’alleanza internazionale e di non stare dalla parte dei nostri militari che rischiano la vita sui cieli di Tripoli. Lo dica a se stesso, il premier, tutte le volte che viene travolto dalla sciagurata tentazione di giocare in occasioni ufficiali sul «bunga bunga» in presenza di attoniti capi di Stato stranieri, come è accaduto l’altro giorno con il premier israeliano.
Il linguaggio è importante, non è un orpello stilistico: è il marchio che certifica l’affidabilità di un progetto politico. E se quel che resta del progetto politico del centrodestra venisse sepolto da un linguaggio prigioniero dell’estremismo e della provocazione dissennata, la sconfitta, oltre che amara, sarebbe l’annuncio, sempre più cupo, dell’ultimo disastro.